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martedì 31 gennaio 2012

Georges Dumézil: là dove vive il mito


Una figura come quella di Georges Dumézil (1898-1986), mitografo, linguista, storico delle religioni, offre a chi si vi accosti per la prima volta, desideroso di saperne di più, una panoramica di spunti e di intuizioni talmente ricca e originale da rasentare la genialità. Se con il termine «genio» si intende colui che, simile all’artista, non si fa schiavo pedestre della materia o della disciplina su cui è chiamato a dire la sua, bensì la domina e se ne appropria imprimendovi il sigillo indelebile di una personalità demiurgica, di certo, allora, nessuno più di Dumézil, nel campo di studî che gli fu proprio, merita un tale appellativo.
Miti e Dèi dei Germani (1939), Jupiter-Mars-Quirinus (1941), L’ideologia tripartita degli Indoeuropei (1958), Ventura e sventura del guerriero (1969): sono solo alcuni dei titoli che hanno reso imperitura la fama di questo accademico sui generis, la cui sterminata bibliografia testimonia, essa sola, di una sete di sapere che sconfina, non di rado, nella tendenza alla curiosità intellettuale e alla scorribanda letteraria, tipica, appunto, del «genio». Troppo «eclettico» e «aristocratico», infatti, il nostro Dumézil, perché lo si possa beatamente annoverare tra gli «iperspecialisti», tra quanti, cioè, si nutrono di note a pie’ di pagina e sembra quasi che traggano un insano godimento da sterili polemiche, sempre pronti a scomunicarsi l’un l’altro. 
Sarà per la limpida e sinuosa scorrevolezza della sua prosa; sarà per il fascino provocatorio delle sue monografie, dove ogni argomento, anche il più erudito, ogni dettaglio, anche il più apparentemente insignificante, ogni fenomeno religioso, anche il più evanescente e arcano, si direbbe quasi che palpiti e maturi in perenne comunione con l’autore. Fatto sta che Dumézil è lì, mai distante e distaccato dall’opera sua, sia che ci parli di Mitra e Varuna, sia che si diffonda a piene mani sul significato dell’arcangelo nella teologia zoroastriana. Chiarisce, illumina, sottilizza, postilla, sottrae occulte divinità all’abbraccio dell’oblio, ma non c’è pagina in lui, statene pur certi, che puzzi di chiuso e di lucerna, come succede — ahinoi! — con certi indigeribili manuali. 
Dumézil non sarebbe, diversamente, un «classico», un «classico» del Novecento e dei secoli a venire. È lui che ha riportato alla luce del sole e ci ha insegnato a decifrare, glifo dopo glifo, tassello dopo tassello, l’immenso, dimenticato, sommerso patrimonio della civiltà indoeuropea. È lui, con il suo filo d’Arianna, che ci ha guidato, passo dopo passo, attraverso il labirinto della mitologia greco-romana. È da lui che abbiamo imparato, una volta per tutte, che «i miti non si lasciano comprendere se li si stacca dalla vita degli uomini che li raccontano... essi non sono invenzioni drammatiche o liriche gratuite, senza rapporto con l’organizzazione sociale o politica, con il rituale, con la legge o il costume; il loro ruolo, al contrario, è di giustificare tutto ciò, di esprimere in immagini le grandi idee che organizzano e sostengono tutto questo».
Professore all’Università di Istanbul tra il 1924 e il 1930, durante tutta la sua lunga e apprezzata carriera di studioso, Dumézil tenne corsi e conferenze un po’ ovunque, fu socio di molte Accademie, ricevette tre lauree honoris causa. Viaggiatore indefesso, pensatore cosmopolita per formazione e vocazione, più di tutto, come ebbe a confessare in una delle sue ultime interviste, Dumézil amava la Turchia; quella Turchia dove per molti anni era vissuto e dove, dalla viva voce di bardi anatolici, aveva raccolto le ultime propaggini di antichissime lingue caucasiche, la cui sintassi lo confermava nella sua idea di una sostanziale unità e omogeneità del mondo indoeuropeo. Ne nacquero studî a dir poco fondamentali, quali, tra gli altri, l’edizione dei  Textes populaires ingousches (1932), nonché la Introduction à la grammaire comparée des langues caucasiennes du Nord (1933). Di questa sua produzione filologica, a torto ritenuta «minore», Dumézil andava fiero, convinto com’era che sarebbe passato agli annali per aver salvato da una scomparsa certa quegli idiomi millenari. Il suo nome era destinato, sì, a entrare nella storia, ma per le sue ricerche sulla cosidetta «trifunzionalità», vale a dire, l’idea, che per Dumézil si riflette all’interno della dimensione cosmogonica, di una ripartizione in tre classi delle società indoeuropee.
Una teoria, questa duméziliana, che è sempre stata al centro di contestazioni, di malintesi, di ermeneutiche capziose e interessate. Come è noto, lo stesso Dumézil non la considerò mai alla stregua di una formula fissa e indiscutibile, quanto, piuttosto, una specie di chiave di lettura, un «metodo», capace di restituire armonia e - ove possibile - un supplemento di conoscenza in dominî di ricerca largamente incompresi e disattesi. Anzi, non pago dei risultati raggiunti a questo riguardo, non cessò mai di auto-correggersi, di apportare nuovi elementi a carico o a favore delle sue tesi, che egli sottopose a un’onesta e progressiva messa in discussione. Fu proprio questo «acuto senso dell’incompiutezza», come ha notato Robert Schilling (Georges Dumézil: un’avventura intellettuale,  in «Futuro Presente», n. 3, 1993, p. 14), a indurlo «a scrivere complementi di alcune opere e a riprenderne delle altre», al pari dei «grandi pittori del Rinascimento, che facevano sempre seguire alle loro firme l’imperfetto pingebat e mai il passato pinxit».
Nonostante l’universale riconoscimento della sua indiscutibile competenza, non mancarono, né mancano, critici feroci che, non potendo più di tanto questionare sul contributo di pensiero reso da Dumézil, si sono faziosamente scagliati sulla sua persona e sulle sue presunte scelte politiche. Accusato nientemeno che di simpatie per Hitler, per aver, in un suo libro, indugiato un po’ troppo sui rapporti tra il nazionalsocialismo e la spiritualità celtica, colpevole di simpatie giovanili per l’Action Française, Dumézil, e con lui la sua opera, sconta tuttora - negli ambienti più ottusi - un’ingiusta ipoteca, che mira a offuscare la personalità di uno studioso il cui valore non esce compromesso, neanche minimamente, dalle banalizzanti analisi ideologiche di certi nemici. A quanti — lo storico Carlo Ginzburg in prima linea — gli rinfacciavano una malriposta simpatia per la mitologia germanica e per i suoi sanguinari epigoni, Dumézil rispose come segue, ribadendo, attraverso il suo caso personale, il diritto a non veder calpestata la dignità della cultura in nome di fisime politicistiche: «Si imputa a Giansenio di aver tagliato dall’Augustinus le frasi che sapevano di zolfo. Con me si fa di meglio: si cercano parole che avrebbero dovuto essere scritte e che invece non lo sono state. Rispondo ricordando che non è mia abitudine confondere i generi: una esposizione, anche di cose sgradevoli, non può assomigliare a una requisitoria; considero malsani e pericolosi lo storico, il sociologo, l’etnologo che giudicano moralmente i fatti che constatano e descrivono».  
Giunto all’età in cui altri si dedicano al riposo, Dumézil dà, forse il meglio di sé. Mentre la vecchiaia sopraggiunge, il professore sente sorgere, sempre più forte, l’impulso di viaggiare. Si reca in Perù, tra gli Indios, per «defrancesizzarsi». Ogni anno, poi, con regolarità, torna tra le sue montagne del Caucaso, per incontrare, come confessò una volta, gli ultimi rappresentanti di una umanità più autentica e vera: «Gli Indo-Europei sono morti; questi rapporti mi sono necessari per l’igiene mentale». 

Angelo Iacovella

domenica 29 gennaio 2012

Seimila piedi sopra gli uomini e il tempo: Nietzsche alla luce di Steiner


Tra i primi e più «penetranti» interpreti del pensiero di Nietzsche, e della sua inquieta quanto paradigmatica parabola umana, non bisognerebbe dimenticarsi, di includere il filosofo ungherese di origine austriaca Rudolf Steiner (1861-1925). La figura di Steiner,  fondatore dell’«Antroposofia» e fautore, a suo modo, di una complessa e articolata concezione esoterica del mondo di stampo rosicruciano, potrebbe apparire, a prima vista, quanto di più lontano dagli stereotipi «superomistici» e «paganeggianti» che si accompagnano inevitabilmente all’immagine di Nietzsche. «Sarebbe difficile — come è stato acutamente osservato a questo riguardo — trovare due pensatori che abbiano così poco in comune come Steiner e Nietzsche. Steiner era convinto dell’esistenza del mondo spirituale, che in qualche modo esiste parallelamente al mondo fisico; Nietzsche era invece convinto che l’unico mondo esistente è quello in cui viviamo […]»[1]. Ciononostante, come vedremo di seguito, i punti di contatto tra i due personaggi, per non parlare di una certa «affinità elettiva», a un approccio meno schematico, risultano tali da giustificare un accostamento, ferma restando, si intende, la pressoché totale divergenza dei rispettivi esiti speculativi e/o teoretici. 


Il 1889 è precisamente l’anno in cui Steiner si imbatte, per la prima volta, nelle opere di Nietzsche, dalle quali rimane come folgorato. Ne ammira lo «stile» e la sobrietà intellettuale; l’«ardimento» con cui si quegli si scaglia a colpi di martello contro i filistei di tutte le accademie; il «linguaggio», tanto affascinante quanto innovativo. Ma ciò che più lo colpisce, nel novello Zarathustra, è soprattutto «la possibilità di leggerne gli scritti senza mai urtare nella pretesa di voler fare del lettore un seguace»[2]. Merito della filosofia nietzscheana, gli occhi del giovane Steiner, è quello di suscitare nell’uomo il desiderio di «andare al di là di se stesso», di trascendersi. Da questo punto di vista, il sistematico capovolgimento di tutte le verità «oggettive» operato da Nietzsche (la cosidetta «transvalutazione di tutti i valori»), scaturisce in quest’ultimo dalla ferrea e imperiosa volontà di «auto-superarsi».
L’autore di Ecce Homo e dell’Anticristo è, insieme con Goethe, l’unico filosofo tedesco al quale Steiner abbia dedicato numerosi articoli e una vera e propria monografia, intitolata, non a caso, Friedrich Nietzsche. Un lottatore conto il suo tempo (1895)[3].  Il saggio in questione testimonia di un perfetto dominio della materia da parte dello Steiner, che — dal canto suo — mette qui soprattutto l’accento sulla personalità «ambivalente» di Nietzsche. Secondo lui, nelle «due anime» del filosofo, si avverte una tensione verso l’alto, un «impulso» — il più delle volte inespresso — a vibrare all’unisono con ciò che di «spirituale» balena e serpeggia dietro il sipario dell’«umano, troppo umano». In Zarathustra si consuma così il supremo paradosso di chi, pago di materialismo, anela a una diversa, più elevata dimensione dell’essere, la quale tuttavia gli si preclude in continuazione. Lo iato incolmabile tra impulso e realtà, tra spirito e materia, nel caso di Nietzsche, si traduce ben presto in un dramma dalle proporzioni cosmiche, universali. Da qui alla follia il passo è breve.
La pubblicazione — e il relativo successo — di Friedrich Nietzsche. Un lottatore conto il suo tempo, spalanca a Steiner le porte di numerosi circoli, specie weimariani, dove la «volontà di potenza» è ormai parola d’ordine. Nel frattempo, la sorella dello «sfortunato», Elisabeth Forster, si reca dal giovane e brillante studioso per chiedergli suggerimenti circa la possibilità di fondare una «Archivio Nietzsche», sulla falsariga di quello di Weimar, dove lo Steiner aveva lavorato anni prima, con impareggiabile acribia, alla edizione critica degli scritti scientifici di Goethe. 
Raimondo di Pennaforte


[1] Colin Wilson, Rudolf Steiner. La vita e la dottrina del fondatore dell’antroposofia, Milano 1985, p. 86.
[2] Rudolf Steiner, La mia vita, Milano 1961, p. 193.
[3] I ed. italiana: Carabba 1935. II ed. italiana, a cura di Piero Cammerinesi: Tilopa, Teramo-Roma, 1985. 

Amedeo Rotondi: il guardiano della botola


Vetusta e polverosa com’era, la bottega del Signor R. avrebbe potuto – con la sua aria da «Libreria delle Occasioni» – ingannare chiunque ne avesse varcato la soglia da neofita, attirato magari dal bizzarro pot-pourri dei titoli seminuovi accatastati in vetrina. Da una serie di dettagli apparentemente insignificanti, primo fra tutti il sinistro cigolìo emesso dalla porta nel richiudersi alle nostre spalle, ben presto cominciammo, tuttavia, a renderci conto – non senza un filo di inquietudine – di essere capitati inconsapevolmente in una filiale dell’Altrove. Il locale, immerso tra le ataviche fuliggini di una Via Merulana da «pasticciaccio brutto», era sì angusto, ma non per questo – come ogni inferno che si rispetti – privo di fascino e di occulte malìe. Una luce fioca, soffusa, accarezzava gli scaffali di noce che – letteralmente traboccanti di libri e di riviste –coprivano le pareti fino al soffitto, sfidandone le ragnatele.
Il nostro disagio si accrebbe alla vista di un torvo commesso che, basco nero sulla testa, ci accolse, facendoci sobbalzare il cuore in gola, con un brusco «Desidera?», che suonava, piuttosto, come un «Fuori dai piedi!». Con sovrana nonchalance, degna di miglior causa, lo driblammo, per poi rifugiarci in un angolino buio, là dove il sesto senso ci suggeriva che avremmo trovato pane per i nostri denti da «bibliofaghi».   
Il «caso» – si fa per dire – volle che l’occhio ci cadesse sulla a dir poco introvabile editio princeps, in due tomi rilegati in pelle nera con impressioni in oro, della Demonologia del Conway, pubblicata a New York il «6 giugno del 1866», come da colophon. Già pregustavamo la gioia maligna che ci avrebbe dato lo sfogliare le pagine di quella preziosa «reliquia», nella pigra e comoda solitudo della nostra poltrona, quando una voce imperiosa, proveniente dal retro, ruppe l’idillio: «Non è in vendita!!!».
Scoprimmo più tardi trattarsi, per l’appunto, della voce del Signor R., fondatore e titolare della suddetta libreria. Della di lui presenza non ci eravamo, a dire il vero,  minimamente accorti, anche perché il Signor R. non era tipo che si facesse notare più di tanto. Sedeva di solito al suo tavolino, tra bolle e fatture, impassibile, lo sguardo grifagno, una barba sale e pepe, la mente assorbita nella contemplazione dello Zero mistico.
La prima volta che ci imbattemmo in lui, doveva avere appena oltrepassato gli ottanta e – tutto sommato – se li portava benone. In quell’occasione, a suon di ...mila lire, riuscimmo a far sì che egli superasse l’iniziale ritrosia, e ce ne tornammo a casa fischiettando, con sotto  braccio l’agognata Demonologia, squattrinati ma felici!!! 
Oggi come oggi, possiamo forse vantarci di essere stati tra i più affezionati clienti del Signor R., con il quale, a forza di bazzicarne il vecchio antro, entrammo pure in una qualche familiarità, nonostante l’abissale differenza anagrafica che ci divideva. Conoscendolo meglio, ci colpì in lui il tratto caratteristico e assai difficile da definire di un magnetismo fuori dal comune, alla Mesmer (tanto per capirci); un magnetismo che gli si leggeva negli occhi e nei modi sia del parlare che del comportarsi, come di chi coltivasse la perfetta coscienza dell’unità e dell’unicità del proprio essere in un mondo di «dormienti».
Nondimeno inorridimmo — noi che eravamo cresciuti poppando latte e il Guénon de L’Erreur Spirite — quando ci giunse all’orecchio la notizia secondo la quale il Signor R. si dedicava a sedute medianiche nel suo mitico e (per noi) inaccessibile retrobottega. Venirlo a sapere ci infastidì alquanto, ma non certo perché volessimo parteciparvi anche noi, avendo sempre guardato allo spiritismo come alla «malattia infantile» dell’esoterismo. Nutrivamo, semmai, un sordo e malamente represso rancore per non essere stati ancora autorizzati – da colui che, nel bene e nel male, reputavamo un Maestro – a penetrare nel sancta sanctorum della libreria, nonostante il nostro lungo, paziente e assai dispendioso tirocinio «biblio-iniziatico». 
Naturalmente, ci guardammo bene dal lamentarcene con il diretto interessato, e il Signor R. – autore, tra parentesi, di un pregevole saggio su L’arte del silenzio fece altrettanto. 
Finché un giorno, mentre stavamo per abbandonare il negozio dopo aver fatto l’ennesima incetta di volumi e volumetti, egli – senza che glielo avessimo chiesto espressamente – ci sorrise e con fare enigmatico ci invitò a visitare, testuali parole, la sua «biblioteca personale». In quel retrobottega di Via Merulana, condotti per mano da un taciturno jerofante, ci calammo finalmente in una botola, dove, al cospetto delle prime edizioni di un Papus, di un Evola, di un Eliphas Lévi, di uno Schwaller de Lubicz, di un Sédir, di uno Swedenborg, di una Madame Blavatsky, come il Buddha sotto l’albero di loto – si parva licet componere magnis – pervenimmo, a nostro modo, all’«illuminazione».
Il 21 ottobre del 1999, alla veneranda età di 91 anni, il Signor R. – libraio antiquario e psicopompo – lasciò questa valle di lacrime. Ne fummo purtroppo informati in ritardo. E mai potemmo, per una ragione o per un’altra, rivolgergli un «grazie».
Lo facciamo adesso, pubblicamente, da queste colonne.
Angelo Iacovella

sabato 28 gennaio 2012

Marika Guerrini: verso la meta di una dolorosa auto-maieutica

Marika Guerrini, Grigiarancio, Asefi, Milano 2000, 88 pp. 

 

Il luogo? Una stanza. Grigia. Forse un ufficio. Indifferente per definizione alla vita. Vita che è luce. Luce che è colore. Colore che è resurrezione della tenebra. Grigia, invece, la stanza. Grigio, che è vacuità di luce, e dunque materia di tenebra, il Ministero. Immerso, come ogni castello di cifre che si rispetti, nelle brume infette del potere. Logica aristotelica. Ferrea. Brutale. Orologio. Meccanismo. Ingranaggio. Automobile. Ascensore.
All’improvviso, una casa. È la memoria. Sepolta. Sotto la coltre. Una di quelle case del sud, che è biancore, luce d’arancio,  mura di gesso, «polvere di sole». E che sembra fatta apposta perché la fanciulla, imbevuta di India, vi deponga, in preda all’attimo bruciante, le uova dell’innocenza perduta. Lontana, però, nel tempo e nello spazio, quella casa: «Un tavolo, un pianoforte. C’erano fiori sul tavolo. Il pianoforte suonava».
Due poli. Il presente. Crudo. Duro. Buio. Troppo spiegato per essere spiegabile. La memoria. Etere. Amore. Quintessenza. 
Due solitudini, un solo diamante. Troppo tagliente per non rimanerne, alla lunga, feriti.
La nube e la rupe

giovedì 26 gennaio 2012

Il maestro e il discepolo: Eliade visto da Culianu

Ioan Petru Culianu, Mircea Eliade, Settimo Sigillo, Roma 2008, pp. 192, trad. e cura di Marcello De Martino.


L’editrice Settimo Sigillo di Roma ha, nel 2008, dato alle stampe un’interessante monografia. Si tratta del volume di I. P. Culianu, Mircea Eliade, già parzialmente pubblicato trent’anni fa per i tipi di una casa editrice cattolica. Diciamo parzialmente in quanto, da quella prima edizione, all’ultimo momento, per volontà dello stesso autore, era stato espunto il capitolo in cui venivano affrontati i rapporti del grande storico delle religioni romeno con il movimento della Guardia di Ferro di Codreanu. Pertanto, questa recentissima pubblicazione, presenta al pubblico italiano l’iniziale lavoro di Culianu, proponendosi come strumento irrinunciabile per chi, finalmente, voglia formarsi un’idea chiara in merito, non solo all’opera, ma anche alla vita di Eliade. La tragica e prematura fine, cui il giovane Culianu andò incontro, per mano di ignoti assassini all’Università di Chicago, nel 1991, pareva aver fatto calare sulle sue produzioni, almeno da noi, un silenzio immeritato. Infatti, il curatore del volume, Marcello De Martino, che vanta parecchie esperienze di docenza in Università straniere e che, a partire dal prossimo anno accademico, terrà la cattedra di Filologia latina presso la prestigiosa Università di Harvard, nonché, da lungo tempo, accorto esegeta di Eliade, sottolinea, nella prefazione, l’importanza di queste pagine stimolanti, in quanto invitano il lettore a spunti di riflessione in grado di condurlo nelle problematiche più vive e dibattute del pensiero storico-religioso contemporaneo. Culianu, nel momento in cui scrisse quest’opera, aveva un rapporto di intensa frequentazione con il Maestro, ma al contempo stava completando, presso la Cattolica di Milano, il suo iter formativo, sotto la sagace guida di Ugo Bianchi. Questi non era certo, come Eliade, un fenomenologo puro, infatti il metodo che aveva adottato, quello storico-comparativo, lo teneva, almeno per certi aspetti, lontano da talune conclusioni eliadiane. Ciò ha contribuito non poco al pregio di questo libro che, pur nel rispetto dell’opera dell’indiscusso Maestro, non si riduce mai ai canoni consueti della mera agiografia, mantenendo sempre, nei confronti dell’oggetto indagato, tanto il dovuto distacco critico-scientifico, quanto la altrettanto necessaria passione che lo anima dall’interno. Merito da ascrivere a Culianu, sotto il profilo ermeneutico, è senz’altro quello di aver colto la centralità dei romanzi giovanili eliadiani. Essi testimoniano, non soltanto di un periodo formativo straordinario durante gli anni della sua permanenza in India, ma anche delle relazioni e della prossimità che lo storico delle religioni maturò nei confronti della philosophia perennis e, più in generale, della gnosi realizzativa. Da questo punto di vista, risultarono essenziali i rapporti intercorsi tra Eliade e Dasgupta prima, e successivamente l’incontro con Swami Shivananda, mirabilmente resi, dal punto di vista letterario, in Notti a Serampore e ne Il segreto del dottor Honigberger. In forza di tali esperienze, rileva Culianu, Eliade sviluppò la sua lettura dell’alchimia come scienza autonoma e non come una pre-chimica. L’alchimista, come del resto lo yogin, è alla ricerca dell’elisir della vita, cioè di quella dimensione immortalante, meta ultima di tutte le tecniche soteriologiche. Queste tendono a ridurre delle operazioni fisiche ed esterne a operazioni condotte sub specie interioritatis. La necessità di trascendere il dato della mera corporeità, o quanto meno di  controllarlo, apprendiamo dalla lettura delle pagine riguardanti la giovinezza dei Eliade, era vissuta dallo studioso in modo impellente. Per questo egli si sottoponeva a pratiche, come la lotta contro il sonno, che dovevano accrescere in lui la padronanza su di sé. La vita dell’uomo e dell’erudito tendevano a coincidere perfettamente, al di là di ogni astratto intellettualismo. E se, dall’insieme dell’opera scientifica, sembra emergere la fondamentale distinzione tra un’antropologia dell’età arcaica e un’antropologia dell’età storica, essa non assume mai il carattere di un invalicabile iato. Infatti, se è vero che: “Una delle fondamentali caratteristiche dell’uomo arcaico è quella di vivere in un mondo la cui realtà non è data dal semplice essere delle cose, ma dalla loro partecipazione a modelli paradigmatici, ad archetipi celesti” (p. 106), d’altro canto l’uomo storico, la cui fase civilizzazionale è stata inaugurata dal giudeo-cristianesimo, ha la possibilità, non solo di esperire la nostalgia della persuasività del sacro, ma di attingere a esso attraverso quell’idea junghiana (il rapporto tra lo psicanalista e lo storico delle religioni è assai complesso, fatto di legami profondi e di distinzioni altrettanto rilevanti), che Neumann chiamò “rituale del destino”. Alla luce di ciò, possiamo sostenere che l’uomo storico non ha un “iniziatore”, se non la storia stessa che si incarica di sottoporlo a prove: “ … a ordalie iniziatiche” (p. 98).  Da ciò è facile comprendere come, per Eliade, all’esperienza del nulla, propria della contemporaneità, non si possa che rispondere con la cosmizzazione dell’uomo, in grado, nuovamente, di renderlo copula mundi. Prova della conseguita integralità umana è la ri-scoperta della gioia di vivere, che testimonia la centralità metessica della condizione umana: pertanto, l’antropologia filosofica eliadiana è tipicamente platonica, non solo nel rinvio all’ontologia archetipale arcaica, ma nel suo momento realmente propositivo, costruito attorno all’interesse esistenziale che coinvolge, in prima persona, lo stesso pensatore. Quanto ora riferito, ci pare confermare ciò che il curatore, De Martino, ha sostenuto in una sua recentissima pubblicazione (Mircea Eliade esoterico, Settimo Sigillo, Roma 2008), e cioè la prossimità, sottaciuta da Eliade stesso e, entro certi limiti, da Culianu, anche a proposito dell’adesione alla Guardia di Ferro, delle posizioni del pensatore romeno con il tradizionalismo integrale di Evola e di Guénon. Anzi, la trattazione eliadiana dei nessi tra iniziazione e storia, da noi poco sopra ricordata, potrebbe suggerire delle indicazioni stimolanti per quanti, negli ambienti tradizionali, ambiscano all’elaborazione di prospettive non più meramente reazionarie, ma a posizioni in grado di condurli a un confronto con la storia, con il presente, mirato a un effettivo superamento della linea del nichilismo. Allo scopo, la lettura di Eliade, ci pare ineludibile: la sua antropologia filosofica è, certamente, un’antropologia della tradizione che, attraverso la descrizione dell’ambiente sacro, interpreta tutte le altre categorie del mondo tradizionale ad esso connesse. Ma, e ciò è determinante, attraverso essa, si superano le tesi storiciste e positiviste, individuando nel mito, nella mentalità arcaica, non un momento dato dell’evoluzione dell’uomo: “ma una struttura dello spirito umano che si manifesta accanto ad altre strutture”(p. 141), pertanto sempre dinamicamente recuperabile. Intuizione condivisa dalla filosofia della storia di uno studioso del secolo scorso, Eric Voegelin. Del resto, che Eliade sia stato attento lettore della filosofia contemporanea, è confermato da Culianu, che tiene a far rilevare l’interesse, solo in qualche caso divergente, per Heidegger. Questi tematizzò l’esser-per-la-morte nel senso di un assuefarsi con essa, di una decisione, in un’ottica “iniziatica”: la familiarità con la morte porta al superamento della morte stessa o, quantomeno, evita fughe mistiche dal mondo, inducendo la decisione per l’agire autentico. Tutto ciò, in un’epoca nella quale la morte e, più in generale, il limite biologico dell’umano, sono sempre più esperiti come fine e termine dell’altro da noi, non in grado di intaccare direttamente, perciò, il nostro personale dasein.
Crediamo di aver presentato solo alcuni degli aspetti rilevanti che possono essere desunti dalla lettura dal libro in questione, o almeno quelli che a noi sono parsi tali. Invitiamo caldamente, così, chi ha avuto la pazienza di seguirci sin qui, a individuare il proprio percorso esegetico attraverso le pagine del libro di Culianu, ricco di informazioni e notizie su uno dei pensatori più significativi del Novecento.
Giovanni Sessa

martedì 24 gennaio 2012

Il ritorno di Federico II di Prussia


Il 24 gennaio 1713 nasceva a Berlino Federico II, cui alcuni storici conferirono l’appellativo di “grande” (fu l’ultimo monarca cui si diede questo riconoscimento). E grande lo fu per davvero: la Prussia era da pochi anni diventata un regno e benché Federico sembrava per tanti aspetti essere l’inverso del padre, ne seguì la politica militarista, rafforzando, con il sostegno dell’aristocrazia terriera, un esercito straordinariamente moderno. Ma non disdegnò di appoggiarsi agli emigranti francesi, discendenti degli ugonotti scacciati dalla Francia, per costruire una efficiente industria manifatturiera a Berlino e che con lui divenne ciò che è: la capitale della Germania, anche se il nostro Federico, seguendo l’esempio francese, si costruì una sua residenza a pochi chilometri, a Potsdam, chiamandola “Sans Souci”. La sua simpatia culturale per la Francia (senza che ciò gli impedisse di scatenare la Guerra dei Sette Anni contro Austria, Francia e Russia) non conosceva limiti; fu una personalità assai complessa: apprezzato musicista, compose sinfonie, ammirate dallo stesso Bach, e pregevoli opere per flauto, di cui era un provetto maestro. Partecipò (con sfortuna, ahimé) al dibattito letterario con un pamphlet in francese contro la letteratura tedesca, che egli, il Gran Re, considerava barbara e aspra, convinzione rafforzatagli dai drammi di uno scapigliato giovanotto, un certo Goethe…
Ma la passione dominante era la filosofia. Nel 1739 non si peritò, proprio lui (che qualche anno dopo invase la Sassonia neutrale pur di vincere la guerra) di scrivere l’ Antimachiavel contro la filosofia politica per cui il fine giustifica i mezzi. L’opera piacque a Voltaire che ne curò la pubblicazione. Con Voltaire e altri philosophes il re intrattenne un’intensa corrispondenza, invitando il grande filosofo. L’utopia illuminista sembrava realizzarsi a Sans-Souci, ma il sodalizio ebbe ben presto termine e del resto gli eventi bellici occuparono sempre più l’attenzione del re che intraprese una specie di prova generale di guerra mondiale per difendere la Slesia, che aveva elegantemente “rubato” all’Austria della sua grande avversaria, Maria Teresa. Per sette anni mise la Germania a ferro e fuoco. La guerra dilacerava i tedeschi in due partiti ostili. Goethe, nell’autobiografia, racconta che la sua famiglia era spaccata: il nonno materno, il dignitoso borgomastro di Francoforte, era un convinto antifedericiano, mentre il padre, giurista e consigliere imperiale, era favorevole a Federico e la lite dovette essere furiosa tant’è che papà Goethe si scagliò con un coltello contro il suocero. Sempre Goethe racconta un divertente episodio molto meridionale: a Caltanisetta, nel 1787, era coi notabili del paese che s’inneggiavano alla grandezza di Federico II. Il poeta ascoltava in silenzio e a disagio e non se la sentì di addolorare i presenti con la ferale notizia che Federico II era morto il 17 agosto 1786. Poi si rese conto che i suoi ospiti si riferivano a Federico II di Svevia.
E’ che per i tedeschi di Federico c’era solo lui, ieri e forse ancora oggi e ancora oggi il giudizio degli storici è aperto. Lo si considerò precursore dell’imperialismo prussiano e perfino del nazismo, ma allo stesso tempo si ammiravano il suo senso della giustizia e la sua esemplare riforma della magistratura e dei codici. «Esiste un giudice a Berlino», la famosa frase del mugnaio di Potsdam lanciata contro il re è la più eloquente prova di quanto giusta fosse la giustizia federiciana. E inoltre era famosa la sua tolleranza in fatto religioso: mentre il papa scioglieva la Compagnia del Gesù e i patres venivano banditi e i loro cospicui beni confiscati negli stati cattolici, Federico, l’illuminista massone, li accoglieva volentieri nel suo regno, dove era lecito credere a chi si voleva, l’importante era obbedire. Per i tempi era un progresso (rapidamente annullato dal suo bigotto successore). Era solo propaganda? Lessing, il massimo rappresentante dell’illuminismo tedesco, nel dramma Minna von Barnhelm dà una versione assai critica delle sbrigative procedure dell’amministrazione del re.
E’ che in Federico II s’incarnano le tante Germania che amiamo, odiamo, che stimiamo e temiamo: la cultura, la filosofia, la musica e il militarismo, lo spietato senso dell’ordine e del dovere, un implacabile superomismo come quando per sette ore restò a cavallo sotto una pioggia torrenziale per dare un esempio ai soldati, o quando gridò ai suoi granatieri in battaglia di lanciarsi all’attacco, ché la vita non è eterna. Ciò che sempre incontriamo in Federico è una spigolosità inesorabile che alcuni credono di ritrovare oggi in certi politici tedeschi, come nella “ortodossia finanziaria” (secondo Sarkozy) di Angela Merkel, non a caso la più settentrionale e “prussiana” dei cancellieri degli ultimi decenni. Ci resta la Germania della musica e del pensiero. Non è poco ancora oggi.     
Marino Freschi 

lunedì 23 gennaio 2012

Il sufismo: una lingua universale

Giuseppe Scattolin, Esperienze mistiche nell'Islam (vol. 3), EMI, Bologna 2000, pp. 320.


Terzo tomo di una serie espressamente dedicata alla storia del misticismo musulmano (o «sufismo» che dir si voglia), questo volume curato per i tipi della «EMI» (Editrice Missionaria Italiana) dal padre comboniano Giuseppe Scattolin, eccellente conoscitore del mondo arabo, ben si inserisce nella già di per sé vasta e, di anno in anno, sempre più nutrita pubblicistica in materia di islamologia. Chi, come il sottoscritto, si interessa sistematicamente all’argomento per ragioni professionali, non può che compiacersi di fronte all’ampliarsi del numero dei titoli — più o meno specialistici — aventi per oggetto i vari aspetti  (dall’arte alla filosofia, dalla teologia  alla letteratura), della rigogliosa civilizzazione arabo-islamica. È un dato di fatto, per rendersi conto del quale ictu oculi basta  aggirarsi tra gli scaffali di una qualunque libreria, il crescente interesse del pubblico italiano nei confronti dell’Oriente a noi geograficamente più vicino e culturalmente più affine. Interesse che, se da un lato risponde alla sacrosanta esigenza di una maggiore informazione in merito all’Islam, dall’altro rischia, come sempre, di tradursi in una «moda» dai contenuti a dir poco effimeri e superficiali, alimentata da prodotti editoriali non sempre all’altezza di quanto ci si  aspetterebbe mediamente in questo specifico settore di ricerca. 
Non è assolutamente questo il caso del libro Esperienze mistiche nell’Islam, il quale, proprio in virtù dell’asciutto rigore filologico che ne caratterizza il complessivo impianto, si differenzia non poco dalle altre monografie attualmente disponibili sul mercato. Merito, certo, del competente curatore, al quale si deve, in prima persona, la scelta felice di impostare la sua ricostruzione del fenomeno mistico alla luce dei testi originali scaturiti direttamente dalla penna dei principali artefici della spiritualità coranica.
L’opera si incentra su due figure-chiave della tradizione sufica: al-Niffârî e al-Ghazâlî. «Autori — scrive Scattolin — molto diversi tra loro ma che sono ambedue testimoni dello sviluppo della mistica islamica» tra il X e il XII secolo d. C.
Il primo, morto nel 366 dell’ègira (976-77 della nostra èra), fu un asceta e concepì il rapporto tra l’uomo e il «Suo Signore» alla strega di un «dialogo fra le due essenze». Il secondo, noto in Occidente durante il Medioevo sotto il nome latinizzato di Algazel, cercò, nella sua monumentale opera intitolata La vivificazione delle scienze della religione, di conciliare le ragioni del dogma con le spinte, spesso eterodosse, di un certo esoterismo filosofico non immune dagli «effluvi onto-cosmici» delle correnti neoplatoniche e dalle speculazioni iraniche sulla «Metafisica della Luce».
Pagine senza tempo che parlano il linguaggio universale della gnosi.   
Angelo Iacovella 

sabato 21 gennaio 2012

Dal cerchio al centro: René Guénon

Autori vari, Esoterismo e religione nel pensiero di René Guénon, Arktos, Carmagnola 2009, pp. 148.


La casa editrice Arktos ha pubblicato, per la Fondazione Evola, il volume Esoterismo e religione nel pensiero di René Guénon. Questo libro raccoglie gli atti di un importante convegno dedicato al tradizionalista francese, che si tenne a Roma il 10 Novembre 2001 presso l’Accademia di Romania. All’evento, fortemente voluto dalla Fondazone Evola che se ne fece promotrice assieme all’assessorato alla Cultura della Regione Lazio, e la cui organizzazione fu curata dal Segretario della Fondazione, Gianfranco de Turris, parteciparono alcuni dei più rappresentativi studiosi del mondo tradizionale del nostro paese, al fine di celebrare degnamente il cinquantesimo anniversario della morte di Guénon. Innanzitutto, il compianto Alfredo Cattabiani che, come ricorderanno almeno i lettori più anziani, attraverso le edizioni Borla, poi con la direzione editoriale della Rusconi e, soprattutto, con una vasta produzione saggistica, si fece interprete, lucido e intelligente, di una cultura anti-razionalista e anti-illuminista. Le qualità dell’uomo e dell’intellettuale emergono anche dalla lettura della relazione che tenne al convegno in questione, Attualità di René Guénon. In essa, Cattabiani presenta, in sintesi, l’evoluzione speculativa e spirituale di Guénon, non scadendo mai nella semplice agiografia, ma mostrando indubbie qualità critico-esegetiche . In particolare, oltre ai meriti indiscutibili che vanno riconosciuti all’esoterista di Blois, Cattabiani  individua un limite nel suo approccio alla tradizione, consistente nell’aver confuso la religione cosmica con la tradizione tout court. Questa la vera ragione della sottovalutazione guénoniana della rivelazione cristiana, nonché la causa della caratterizzazione meramente intellettuale-metafisica del suo pensiero, a discapito di un approccio al reale motivato, al contrario, sulla  dimensione della carità. Cosa che, come ricorda l’autore del saggio, fu già imputata al tradizionalista, dal filosofo cristiano Maritain. Stimolante è anche il contributo critico fornito da Piero Di Vona, nella relazione Julius Evola e René Guénon: un confronto. A questo studioso si devono, peraltro, i primi lavori accademici dedicati alla corrente di pensiero detta del “tradizionalismo integrale”. Di Vona sottolinea il diverso retroterra culturale dei due autori, maggiormente caratterizzato in termini filosofici quello di Evola, oltre che centrato su una lettura della tradizione romana come autentica via al divino, più aperto quello di Guénon all’Oriente, vista la sua critica al primato ellenico-romano. Ciò determinò l’interessante interpretazione di Guénon del cristianesimo delle origini, inteso come un’associazione iniziatica che si trasformò, solo successivamente, in religione essoterica, per subentrare agli antichi culti agrari ormai decaduti. Questa impostazione era destinata a dividere, su alcune posizioni di grande rilevanza, i due studiosi perfino nel periodo in cui essi saranno più vicini.



Alessandro Grossato nel saggio Agartha, Agharti o piuttosto Agartu difende le posizioni espresse dal pensatore francese nel “Re del mondo”, a proposito dell’esistenza invisibile di un “Centro” o “Cuore del mondo”, proponendo una chiave mongola per definire e comprendere questo mito. L’invisibilità del Centro si riferisce, secondo Grossato, alla sua natura eminentemente spirituale, che può essere rinnovata esclusivamente da  patti fra gli uomini appartenenti alle élites intellettuali. È un regno sub specie interioritatis che solo le scelte umane possono, pertanto, riattualizzare nella storia. Al Centro corrisponde anche il logogrifo di una piccolissima località posta al crocevia storico-geografico fra sciamanesimo, taoismo, buddhismo e islamismo. Di questo luogo, Grossato fornisce anche le precise coordinate: il lettore, curioso e interessato a questi temi, legga attentamente il saggio e saprà dare giusta collocazione al “Cuore del mondo”. Quello che, invece, ci ha colpito della relazione di Francesco Zambon Guénon e la leggenda del Graal, è la ricostruzione storico-filologica delle fonti di Guénon: la versione della storia cui egli fa riferimento è narrata nel libro di Victor-Emile Michelet, Le Secret de la Chevalerie. Zambon riferisce del protagonismo di Michelet negli ambienti occultistici francesi e della sua vicinanza a Stanislas de Guaita, membro dell’ordine cabalistico dei Rosa Croce. Alla morte del de Guaita, gli archivi dell’Ordine furono trasferiti a Guénon  che, così, sarebbe potuto venire a conoscenza delle tesi del Michelet sul Graal (non essendo, all’epoca, ancora stato pubblicato il libro ricordato). Quindi, Guénon per sviluppare le sue tesi sul Graal, si servì di una “compilazione” moderna, nata negli ambienti occultistici, che utilizzò per sostenere che gli autori medievali della leggenda non erano, in realtà, che gli inconsapevoli portavoce di una imprecisata organizzazione iniziatica. Per questo, la lezione del francese, sostiene l’autore della relazione, conserva il suo valore per quanto riguarda i principi generali di interpretazione, ma appare superata nei suoi riferimenti alle fonti. Dei rapporti di Guénon con la massoneria si occupa l’arabista Angelo Iacovella in Tra due colonne, René Guénon e la massoneria. Lo studioso ripercorre i momenti più significativi della formazione del francese, riferendo dei suoi rapporti con il mondo massonico, iniziati nel lontano 1907. Attraverso Papus e la frequentazione della di lui Scuola di Scienze Ermetiche, il tradizionalista fu iniziato al grado di apprendista il 25 Ottobre dello stesso anno, per divenire maestro il 10 Aprile 1908. Siederà, con questa carica, al Congresso Massonico Spiritualista, accompagnando, inoltre, i delegati in una visita guidata alle meraviglie alchemiche della facciata di Notre Dame. Nel 1912, Guénon prosegue il suo magistero massonico sotto l’egida della Gran Loggia di Francia, solo nel 1918, senza venirne peraltro radiato, cesserà in questo ambito le sue attività. Nel frattempo aveva collaborato a riviste cattoliche e dichiaratamente anti massoniche, tra le quali “ Regnabit”, animata da Charbonneau-Lassay. Non si tratta di comportamento, spiega Iacovella, incoerente, al contrario: infatti, Guénon avrebbe voluto riattualizzare quanto di “impermanente” restava, tanto nel cattolicesimo tradizionale, quanto negli antichi compagnonnages, al fine di scongiurare la definitiva dispersione del tesoro iniziatico che conservavano ancora, almeno in parte. Forse si trattò di mere illusioni, vista la successiva scelta islamica del tradizionalista. Lo storico delle religioni Enrico Montanari in Guénon e l’esoterismo cristiano orientale, saggio che mostra una competenza filologica e interpretativa notevole dello studioso italiano riguardo alle diverse fasi di sviluppo del pensiero dell’esoterista, chiarisce come, dopo il 1930, Guénon attraverso contatti in Egitto con ambienti legati al sufismo, riflettendo su pratiche come il dhikr, giungesse ad incontrare e a leggere positivamente, in termini iniziatici, l’esicasmo, la preghiera del cuore, propria della mistica ortodossa. Probabilmente, un’influenza in questo senso fu esercitata dai suoi discepoli di origine romena, come Valsan. Più in particolare, agì su di lui la lettura del testo di Vladimir Lossky, Teologia mistica della Chiesa d’Oriente. Nonostante ciò, il suo riconoscimento dell’esicasmo non divenne mai  una ricerca delle sue basi dottrinali più profonde, in quanto il francese non riconobbe mai al cristianesimo uno statuto tradizionale privilegiato. Sul tema Guènon e l’esoterismo islamico segnaliamo il contributo di Alberto Ventura, al quale si collega, per certi aspetti, la relazione di Dag Tessore  Guénon e la mistica delle Crociate”, saggi che chiudono il volume. In conclusione, ci permettiamo di consigliare caldamente al lettore il libro che abbiamo presentato perché, come ha sostenuto Luciano Arcella nella postfazione, Guénon non cercò mai di ricostruire la tradizione, ma cercò semplicemente di rintracciarne segni vivi nella storia e nel suo tempo, suggerendo itinerari e percorsi originali per una ricostruzione interiore. Anche alla luce di ciò, Gianfranco de Turris, nella prefazione, suggerisce di integrare le posizioni di Guénon con le rettificazioni e le precisazioni addotte, alla filosofia della tradizione, da Evola. Solo a questa condizione la tradizione si lascia intendere nella sua dinamicità, come autentica nostalgia di futuro, o, per dirla con Heidegger, come “ciò che essendo all’origine resta sempre un avvenire, resta costantemente sotto l’influenza di ciò che è da venire”. La tradizione, quindi, come progetto sempre transitabile.
 Giovanni Sessa

martedì 17 gennaio 2012

Un controcanto nietzschiano

Friedrich Nietzsche, Epistolario 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, pp. 1360.


Finalmente con questo quinto volume, Epistolario 1885-1889 (pagine 1360, €100) si conclude l’intensa corrispondenza di Nietzsche che l’editore Adelphi pubblica – insieme con gli editori tedesco, francese, inglese e giapponese – concludendo così la gigantesca impresa filologica di presentare testi attendibili dell’opera nietzschiana, dopo le celebri manomissioni della sorella antisemita. E si tratta di una delle più brillanti operazioni filologiche del secolo ad opera di due italiani, Giorgio Colli e Mazzino Montanari, che hanno avuto il permesso, da parte delle autorità della Repubblica Democratica Tedesca, di lavorare per decenni sulle carte conservate a Weimar. Ora, dopo circa mezzo secolo, l’opera viene conclusa da G. Campioni e M. C. Fornari, che hanno curato un indispensabile e straordinario apparato di note, che consente di seguire giorno per giorno la peripezia intellettuale ed esistenziale del filosofo. Le lettere, nell’ottima traduzione di Vivetta Vivarelli sono del periodo 1885-1889, quando ormai la salute del professore Nietzsche, cattedratico di Filologia Classica a Basilea, è definitivamente compromessa e il filosofo vive con un’esigua pensione in Riviera – soprattutto nella sua amata Nizza, ma anche a Genova e nei dintorni, nonché a Sils-Maria nell’Engadina, dove aveva composto in un’esaltante estasi visionaria Così parlò Zarathustra, senza dubbio l’opera più densa e più lirica della sua filosofia e forse di tutta la filosofia occidentale. E proprio in questi giorni è in libreria una nuova traduzione bilingue, assai radicale, del capolavoro nietzschiano: Queste le parole di Zarathustra, a cura di Giulio Sézac (Edizioni Ar, pagine 600, €60.
Le lettere sono un controcanto che s’intreccia mirabilmente con la più  geniale e inattesa meditazione filosofica dell’Ottocento che non ha perso la sua freschezza ingenua e provocatoria, come quando all’amico e collega Franz Overbeck scrive: Mi ha davvero “tranquillizzato” il fatto che un lettore fine e ben disposto come Te continui comunque a nutrire dei dubbi su quello che in sostanza io “voglio”. I timori che mi crescevano dentro andavano invece nella direzione opposta: temevo cioè, questa volta, di essere stato troppo esplicito, e di aver svelato “me stesso” troppo presto. Strana constatazione quella di Nietzsche timoroso di essere, questa volta, capito. E’ che lui combatteva la sua lotta contro la mentalità e la cultura del suo tempo, scegliendo una posizione altera e orgogliosa, per cui di fronte alle perplessità dei lettori o al silenzio, con cui venivano accolte le sue opere, si rifugiava nel sentimento aristocratico che le sue parole sarebbero state comprese solo dopo la sua morte, dopo un secolo almeno. E in realtà non aveva tutti i torti, come pure aveva ragione a essere così radicalmente critico verso la Germania di Bismark e dell’imperialismo prussiano, quando in una lettera alla madre confessa: Se anche dovessi essere un cattivo tedesco – sono pur sempre un “ottimo europeo”. Con i tempi che corrono, sono parole, più che mai attuali, che ci sostengono e che i tedeschi dovrebbero tornare a meditare.
Ma la sorpresa di questo volume di 800 lettere è l’amore di Nietzsche per l’Italia, per la Liguria, ad esempio per Ruta Ligure: un’isola dell’arcipelago greco, con bosco e montagna[…].Ha in sé qualcosa di “greco”, non v’è alcun dubbio: d’altra parte un che di piratesco, imprevisto, nascosto, pericoloso; infine, a una svolta solitaria, un pezzo di pineta “tropicale”, con la quale si è lontani dall’Europa. Nizza è la sua meta, anche meteologica, preferita, come pure affiora il grande amore per Genova, come quella volta che sbaglia treno e invece che a Torino, giunge al capoluogo ligure: rimpiangerà il denaro per il nuovo biglietto, ma è felice di rivedere la sua Genova. Torino – la mia “buona” Torino, scrive alla sorella - diventa poi l’ultima meta, con le sue strade ordinate, con la sua topografia illuministica. E paradossalmente proprio in questa città della mente e della raison si compie l’estremo dramma dell’inabissamento nella follia, testimoniato dalle ultime lettere, firmate “Il Crocefisso”. Una delle ultime è indirizzata al re d’Italia: Al mio amato figlio Umberto. La mia pace sia con Te! Martedì verrò a Roma e voglio vederTi a fianco di Sua Santità il Papa. Il Crocefisso. Una pazzia che ha qualcosa d’intimamente filosofico, come emerge dall’ultima lettera a Jacob Burckhardt –firmata col suo nome – con un incipit folle e grandiosamente disperato: in fin dei conti sarei stato molto più volentieri professore a Basilea piuttosto che Dio; ma non ho osato spingere il mio egoismo privato al punto di tralasciare per colpa la creazione del mondo.
Raramente il mestiere di professore è stato così degnamente valutato e per giunta dal filosofo che aveva proclamato che Dio era morto. E tutto ciò avveniva mentre si smarriva nella fredda, ma amatissima abitazione torinese di via Carlo Alberto.            

                                                                                                                                                                Marino Freschi

Passi sull'acqua: un profilo di Attilio Mordini

Attilio Mordini, Passi sull'acqua. Dai quaderni di appunti 1954-1961, Libreria Ed. Europa, Roma 2000.


Suona, questa edizione di parte dei diari inediti di Attilio Mordini — parliamo di Passi sull’acqua. Dai quaderni di appunti 1954-1961 — come un giusto, per non dire doveroso, «risarcimento» (ancorché necessariamente postumo) a un autore che si è visto spesso, suo malgrado, applicare indebite etichette di «anacronismo» e di «inattualità». Risarcimento, sì, perché se c’è un pensatore di Destra — e cattolico  — che non merita davvero di essere riposto in bauli da soffitta, e con lui i suoi testi più o meno introvabili e impolverati, quello è Mordini, appunto.
Filologo troppo rispettoso delle Sacre Scritture per cadere nelle esangui e accomodanti facilonerie proprie di certo cattolicesimo d’accatto, a Mordini ben si attaglia la definizione di «cavaliere di Dio», opportunamente attribuitagli da Primo Siena in un dimenticato articolo pubblicato in memoriam sul primo numero della rivista Adveniat Regnum all’indomani della morte, che lo colse, prematuramente, il 4 ottobre del 1966, all’età di 43 anni. Dove per «cavalleria» si intende qui, mordinianamente, il requisito sine qua non del vero cristiano, che è chiamato a fare proprio il motto paolino vita super terram militia est. Non si comprenderebbe, diversamente, tutto il faticoso, travagliato decorso della civiltà cristiana che è — sono parole di Mordini che citiamo pour cause  — «storia di lotta e di sacrificio... Se portare Cristo nel mondo è portare la pace tra gli uomini, la guerra è, pur tuttavia, l’ultima e più certa garanzia di spiritualità. Ovunque con entusiasmo si sa combattere, ovunque si sa portare la morte e offrire al tempo stesso la propria esistenza terrena, là c’è il distacco dalla materia e l’amore del sacrificio...» (cit. in Tradizione e restaurazione. Saggio introduttivo al pensiero di Attilio Mordini, a cura del Centro Studi Mordiniani, Roma 1973).
Ora, tra i molti meriti che a posteriori vanno riconosciuti al Nostro, vi è senza dubbio quello di aver intravisto e denunciato,  dall’alto della sua rupe solitaria, fatta di metafisiche certezze, il fenomeno — escatologicamente inquietante — della progressiva secolarizzazione della civiltà europea; una civiltà la cui parabola sempre più si allontana da quella «matrice» cristiana che pure essa — nolente o volente —  porta indelebilmente inscritta nel suo DNA, nel suo atavico «destino» (per usare un vocabolo sì caro a Spengler).
Felix culpa di Mordini — ci pare di poter asserire — è stata quella di aver profetizzato (al pari, mettiamo, di un Solov’ev) l’avvento dell’Anticristo in versione new age, buonista e vegeteriana; vale a dire, di quella mentalità moderna e neopositivistica che — non paga di aver profanato tutto il profanabile — vorrebbe ridurre quel che resta del Sacro, in un mondo ormai orbo di Dio, a un giulebboso kit pseudomistico e sentimentaloide, da acquistarsi possibilmente con carta di credito in apposite chiese o sette-supermarket, senza tanti problemi di coscienza. Nella proterva illusione di poter eliminare dalla faccia della terra quel «senso del Mistero» che rappresenta — checché se ne pensi e se ne dica — il «cuore» della rivelazione cristiana (e non solo). Enigma a cui Attilio Mordini si è costantemente rifatto nell’ambito delle sue numerose opere, tutte ricchissime di spunti e di riflessioni metafisiche e  spirituali degne di non cadere in desuetudine. Opere che in questa occasione ci sembra opportuno richiamare, almeno in parte, e tra cui spiccano Il tempio del cristianesimo (1963), Dal mito al materialismo (1966), La verità del linguaggio (1974) e Il mistero dello Yeti (1977). A queste — grazie all’impegno della curatrice Maria Camici, che li ha riportati alla luce con filologica acribia — si aggiungono oggi molti degli appunti contenuti nei quaderni manoscritti provenienti dal lascito inedito dello stesso Mordini.
Il testo in questione è — ovviamente — di quelli che non  si lasciano facilmente epitomare. Di «diaristico» in senso stretto, come osserva acutamente la curatrice nella presentazione, Passi sull’acqua ha comunque  poco o niente. Si tratta, piuttosto, «di pensieri fermati sul momento», concepiti perlopiù «sotto l’urgenza dell’intuizione, con la commozione e la gratitudine di chi si è sentito porgere le creature  come se fossero parola di Dio, e per questo si vede tenuto renderne testimonianza contemplando, interpretando, pregando»
Esperto di religioni e di miti, tanto orientali quanto occidentali, Mordini in questa circostanza indossa — come e più che altrove — i panni dell’umile scoliasta il quale,  illuminato dai raggi della fede, si sofferma su  questo o quel passo del Vangelo, su questa o quella parabola, onde poi rivelarcene — all’improvviso — i simbolismi e le allegorie più sottili, quali le nostre menti ottenebrate dall’ignoranza delle scienze sacre mai avrebbero potuto cogliere da sole. Come quando, ad esempio nel capitolo secondo, intitolato non a caso «Nodi di rete», è fatta da Mordini piena luce sulle segrete simmetrie che possono instaurarsi e rinvenirsi tra il Linguaggio Universale dello Spirito e la Grande Opera del Tessitore, tra il Logos e la Veste. Veste che è insieme Sudario e Tappeto da preghiera, come Mordini chiarisce in questo suo straordinario «passo» (nel senso di brano) con cui ci piace concludere questa nostra recensione-rievocazione: «Come in ogni tradizione il simbolo del tessuto è schema dell’universo e della Sacra Scrittura ordita di passi su trama divina; così lo è la Sindone e in modo più reale ed eminente. La Madonna, e in Lei la Chiesa, trova il sepolcro vuoto del corpo di Cristo; la Sindone è ripiegata in un canto, e Maria la raccoglie e la conserva. È il lenzuolo che ha su di sé l’impronta del corpo di Cristo. Filo per filo, la trama ci mostra le fattezze di Lui, il di Lui sangue, le battiture subite, le Sue piaghe. Filo per filo tutto di Lui ci viene detto dalla Sindone e su quei fili è ordita l’intera Bibbia. Ciò che è ritenuto l’unico documento materiale e storico dell’Incarnazione e della Passione, è ad un tempo Sapienza della Scrittura: è come la tradizione orale senza di cui i sacri testi son lettera morta... Fili di Sindone gli Stromata di Clemente Alessandrino, i Sutra dei Vedanta, l’ordito e l’ordo romano che sarà trama universale della Chiesa. Ogni tradizione ha il suo simbolo nel tessuto, ma solo la Chiesa di Cristo, del Dio fatto veramente uomo, di Carne e di Sangue, del Dio che volle nutrire di respiro umano una manciata di giorni terreni della nostra storia perché il mondo fosse veramente in Suo nome, solo la Chiesa dell’Incarnazione custodisce il tessuto materiale del sepolcro e della conoscenza, il lino grande da dispiegarsi agli uomini perché la fiaccola sia posta nel mezzo della stanza a illuminare l’intelletto d’ognuno».

Raimondo di Pennaforte



domenica 15 gennaio 2012

Ai lettori, salute!



Guarda la nube che giuoca col lampo e col tuono,
guarda la luna che giuoca col globo celeste,
guarda la rupe che s'alza d'un impeto al polo
e come giuoca in amore con l'eco ridesta!
Guarda il torrente agli scogli, che mugghia, ridonda
e con la piena dell'onda rinnova la festa;
guarda la bella farfalla, dal volo librato
sulla corrente, giocare col fior di giacinto:
giuoca tu pure con loro, conservati bimbo - 
belli son tutti quei giuochi che giuoca il creato! 
August von Platen 
(1796-1835) 




pallida di desiri la nube
languir di rupe in rupe

Gabriele d'Annunzio


Novità




Giordano Bruno

Opere
a cura di Marzio Pieri

Vol. 1, Arcicommedia: CandelaioCanto CirceoCena delle Ceneri
Vol. 2, Il Bruno Furioso: Heroici FuroriSpaccio della Bestia Trionfante, Cabala del Cavallo Pegaseo, L'Asino Cillenico

La Finestra editrice, Lavis (TN)
2 voll. br.; pp. 1700;  € 160 
ISBN 978-8895925-34-9


sabato 14 gennaio 2012

Frammenti per una cerimonia alla dea Ecate


I
Luna che brilla sopra un mare in tempesta. Nuvole a strati coprono le stelle. Un uomo e una donna camminano sul filo di un molo quadrangolare.

II
Alle spalle la facciata di un albergo chiuso. Le onde si frangono con violenza contro i pilastri di cemento. Ci sono schizzi dappertutto. L’uomo e la donna, in meditazione, si ignorano pur essendo insieme.

III
Il vento soffia forte a tratti, poi si placa improvvisamente. La donna è seduta sopra una sedia di vimini e guarda l’orizzonte. L’uomo in piedi al suo fianco gioca con il falco dei ricordi.

IV
Inversione delle parti. L’uomo è seduto. La donna accanto a lui in piedi guarda verso le vasche dove una volta guizzavano i pesci. Pietrificazione delle due figure alla debole luce di un lampione lontano.

V
Traslato. Figure nell’uragano in caccia macabra. L’uomo siede su una carrozzella d’acciaio per infermi. La morte in abiti femminili lo assiste come trepida infermiera e gli addita l’infinito.

VI
Rischiaramento del cielo. Voci di spettri nelle sale dell’albergo. L’uomo stringe a sé la donna che si schermisce. Tentativo di fuga e circumnavigazione del quadrilatero da parte dello stesso. Cessazione del vento.

VII
Ripiegamento nell’entroterra. Ombre che lottano per la sopravvivenza all’ultimo ponte trabeato. La donna è china sulla prima vasca. Dietro di lei l’uomo salta fra gli scalmi e le nasse ammucchiate simulando una minaccia diretta.

VIII
Inversione delle parti. L’uomo è in posizione avanzata presso la seconda vasca. La donna, in pantomima di aggressione, procede lentamente alle sue spalle. Arresto del tempo e metafora dei contenuti.

IX
Traslato. Passato e presente lottano nella mente di due assassini. Ognuno per conto suo vive un dramma differente. Contrapposizione e successivo annullamento delle loro battute nei campi rispettivi.

X
Rapido arretramento nella terrazza antistante l’albergo. L’uomo presso le docce esterne è coinvolto in un duello mortale. La donna, ignara, percorre ancora con lo sguardo il corso dei flutti. Il cielo intanto si è rabbuiato.

XI
La donna è seduta, con le spalle alla vetrata dell’albergo. La sua testa sopravanza la spalliera della sedia e penzola all’indietro in modo innaturale. L’uomo, in piedi davanti a lei con le braccia conserte e le gambe divaricate, la contempla ghignando.

XII
Traslato. La donna è seduta sopra una poltrona di vimini con la gola squarciata. La morte in abiti maschili ne segue l’agonia e offre libagioni al mare e alle stelle. Alcuni bambini osservano la scena e disapprovano.

XIII
Definitivo ritorno sulla terraferma. L’uomo e la donna corrono per mano in una strada deserta. Da splendidi nemici si sorridono intuendo prossima la fine. All’arresto della corsa crollano le ultime barriere.

XIV
Traslato. Due pupazzi di stoffa corrono a rompicollo tenendosi per mano. Un uomo e una donna, ambedue muniti di balestre con cannocchiale, li prendono lentamente di mira. Il tonfo dei corpi è sommerso dal rumore del mare.

XV
Viaggio notturno sul litorale. TRASFIGURAZIONI.
Silenzi. Avvio a nuove morti.

Luciano Pirrotta