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giovedì 12 gennaio 2012

Bonnard, l'amico solitario

Abel Bonnard, L’amicizia, Edizioni Settecolori, Vibo Valentia 2000, pp.  148.


«Bisogna osservare l’amicizia innanzitutto allo stadio più illuminato, nell’attività dello spirito in cui gli amici si ritrovano. Il loro piacere non è approvarsi, ma comprendersi, e uno dei segni dai quali si riconoscono le amicizie inferiori: coloro che le formano si credono meno amici quando si contraddicono. Il loro errore si spiega con più di un motivo. In primo luogo non arrivano neppure a concepire la festa di idee alla quale l’amicizia dà vita: per loro una discussione è solo uno scontro dove agitare i pugni. Ma c’è di più: i mediocri si portano sempre dietro la vanità ed è per non avere abbandonato questo bagaglio che si fanno respingere alla porta di tutte le cose grandi... Ben diversamente accade per i veri amici: per loro è tanto più facile contraddirsi, se hanno cominciato con l’essere d’accordo, ovvero ad essere spiriti dello stesso rango, e tra di loro ognuno ha un concetto chiaro di ciò che gli oppone l’altro. Per questa ragione un ingegnoso contraddittore ci riesce mille volte più gradito di un insulso approvatore».
Difficile sottrarsi all’impressione di avere a che fare — per una volta — con un capolavoro (nel suo genere), mentre si sfogliano e si leggono, e si sottolineano con il lapis delle buone occasioni, per poi rileggerle al momento opportuno, le pagine acute e sottili  che Abel Bonnard — accademico di Francia — ci dona in questo suo L’amicizia, in distribuzione da febbraio per i tipi della «Settecolori» di Vibo Valentia nella collana Solitudini. Un’opera che potrebbe, da par suo, competere tranquillamente con gli enchiridion di vecchia memoria, dove l’Autore (nato nel 1883, già ministro dell’Educazione Nazionale nella Francia di Vichy), armato di bisturi, riesce, dalla caotica e opalescente nebulosa dei sentimenti umani, a estrapolare la quinta essenza, il fior fiore di quella «passione virile» per antonomasia che è, appunto, l’amicizia. Essa è tale che può dire di goderne veramente, scrive Bonnard, solo chi non si è — malgré tout — lasciato «infondere dagli altri il disgusto per l’uomo, colui la cui fede non è venuta meno con l’accrescersi dell’esperienza, e chi, credendo e sapendo che anime grandi, spiriti sovrani, cuori affascinanti si celano nella folla degli uomini, non si è stancato di cercarli e li ama ancor prima di averli incontrati. Trovare un amico, allora, è scoprire un campione della specie rara fra quella comune, è incontrare nella gerarchia apparente, e non importa a quale suo grado, un principe della gerarchia reale; insomma, è ritrovare l’uomo. Nulla di più gioioso può accaderci, anzi: nulla di più importante».
Pensieri di lungo respiro, massime epicuree, immagini e meditazioni quasi mistiche, aforismi al fulmicotone e su tutto l’aspirazione a un mondo più genuino e disinteressato, dove lo spirito borghese, che tutto mercifica e baratta nel nome del Dio-Quattrino, non la faccia da padrone. Questo e altro troverà il lettore nel libro di Bonnard, uno di quei libri troppo «classici» perché li si possa antologizzare. Meglio sorseggiarne ogni riga, seduti in comoda poltrona, come si farebbe con un nettare squisito e aristocratico. Salvo scoprire, alla fine dei conti, che amicizia e solitudine — paradossalmente — incarnano due facce della stessa medaglia: «Pieno di risorse, il vero solitario sa conservare la freschezza. Se è un poeta, gli resta l’incantevole potere di farsi amici al di là degli uomini: e come potrebbe sentirsi solo, potendo contemplare le opulente legioni delle nubi, o guardare un paesaggio che riempie il vago sorriso delle cose... E se è incapace di queste semplici gioie, gli resta l’austero paradiso delle biblioteche, la vasta nobiltà dei morti e le notti di studio nelle quali tutti i geni accorrono alla luce di una lampada».

Raimondo di Pennaforte