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giovedì 12 gennaio 2012

Ezra Pound: la poesia come rito purificatorio


I contrasti fanno parte dell’esistenza; al loro cospetto le azioni dell’uomo autentico si svolgono con lo spirito di un rito.
Se è possibile in qualche misura compendiare le molteplici sfaccettature della vastissima produzione poundiana nella unitaria visione di fondo che la sottende ci sembra questa la formula più soddisfacente. Volutamente ricorriamo al termine ‘visione’ non tanto perché ogni poeta sia in maggiore o minore misura un visionario, né perché la parola prescelta sembra contrapporsi senza equivoci alle fredde operazioni dell’intelletto speculativo, ma in forza del fato che presso Pound la razionalità si presenta sotto le specie di un contemplare lucido, alieno da qualsivoglia intellettualismo discorsivo. D’altra parte, però, egli non cade nemmeno nel versante opposto del lirismo sentimentaloide o della retorica autoreferenziale e ideologica tipica di tanta poesia contemporanea. Ci troviamo cioè di fronte ad una coscienza intrepida e disincantata al tempo stesso, che conosce bene l’impossibilità di cogliere l’assoluto mediante la denuncia di logoi antitetici (palesi allorché ci si fermi all’analisi esteriore della contingenza); essi infatti si collocano maggiormente remoti — proprio in quanto visti quali opposti — rispetto al logos primigenio che, di fatto, tutti li riunisce e trascende.
Dolore e piacere, amore e odio, vita e morte, per Pound, che si era a lungo formato sui testi dell’arcaica sapienza orientale, non possono divenire fonte di recriminazione, rammarico, rimpianto. Nell’eterno gioco della divinità dispiegante in guisa di cauda pavonis lo splendore del creato per poi parimenti riassorbirla in apparente annichilimento, la vicenda individuale è un’avventura da vivere con lo stupore e la gioia del fanciullo che guarda, e la profonda eticità dell’adulto dedito a un rito ininterrotto. Pound, che aveva riveduto e adattato il testo confuciano del Chung Yung (”L’Asse che non vacilla”) era permeato dall’immagine dell’uomo di razza — fosse questi poeta, combattente, politico, contadini — ancorato all’invariabile, e perciò capace di azioni effettivamente rettificatrice nei riguardi della realtà circostante, pur essendo all’interno di sé “pesato e tranquillo”, in attesa del suo destino. Il principio cardine di una condotta ispirata da una costante ottica rituale traspare in effetti ovunque si scandagli l’opera del “miglior fabbro”. Cerimonia sacra rivolta ora al cielo ora alla terra è l’impegno a rintracciare la “metafisica della luce” negli aforismi estremo orientali come negli scritti di Guido Cavalcanti, la traduzione di testi e di autori lontani per spazio e tempo (che diventa  vera e propria puntigliosa creazione ex novo), l’inflessibile ricerca del verbo poetico attraverso lo sfrondamento di qualsiasi orpello inessenziale, la scelta di battersi su posizioni perdute anche quando sarebbe stato molto più facile pentirsi e ritrattare. Mentre l’agire degli uomini comuni si dirige secondo le piccole convenienze “cercando di illudere la fortuna” (Chung Yung, XIV, 4), Pound, sulla scorta dei sacri precetti, “guarda diritto dentro di sé” (ibidem, I, 3), attento a cogliere l’ordine dinamico dell’universo (rta in sanscrito) che si riflette con perfetta rispondenza in colui che celebra il rito adeguatamente e nel tempo adatto. Allora, pure la guerra, l’eros, la forgiatura del verso poetico, assumono la natura di ‘sacrificio’ (dal latino sacrum facere) e possono essere esperiti nell’innocenza e nella pregnanza più complete, senza guardarsi indietro ma senza neppure attendersi alcunché dal futuro.
In tale prospettiva tralasciando per un attimo l’ingombrante (e plurichiosata) grandezza dei Cantos non sarà inutile riproporre qui due liriche appartenenti alla prima stagione poetica poundiana (quando l’autore non si era ancora incontrato con la saggezza orientale e quindi prefiguratrici, in un certo senso, di una vocazione latente), comprese nella raccolta Personae (1909) ma già pienamente emblematiche dello stile dell’uomo e della qualità dell’artefice: Sestina: Altaforte e Erat hora. Nella prima si magnifica, attraverso le parole fatte pronunciare a Bertran de Born, signore del castello di Hautefort in Dordogna e grande cantore dei fasti guerrieri, la radiosa atmosfera della battaglia vissuta con giubilo visionario e supremo disinteresse verso ogni meschino attaccamento; la seconda è uno splendido cammeo dove il concetto del carpe diem fa da pendant all’amor fati che consente di gustare al meglio quanto, inaspettatamente, la vita ci offre tutti i giorni.
Luciano Pirrotta 



Sestina: Altaforte

Loquitur: En Bertran de Born
Dante Alighieri mise quest’uomo nell’inferno
perché era un seminatore di discordia.
Eccovi!
Giudicate!
Scavando l’ho tratto fuori nuovamente?
La scena è al suo castello, Altaforte. «Papiols» è il suo giullare.
«Il Leopardo», la divisa di Riccardo Cuor di Leone.

1
All’inferno! La pace appesta tutto il nostro Sud.
Tu, cane bastardo, Papiols, vieni! Diamoci alla musica!
Io non ho vita tranne quando cozzano le spade.
Ma quando vedo stendardi d’oro, di vaio, violacei, opporsi
E i vasti campi sotto loro farsi vermigli,
Allora urla il mio cuore quasi pazzo di gioia.

2
Nell’ardore dell’estate provo immensa gioia
Quando le tempeste sulla terra ne uccidono  la sporca pace,
E i fulmino dal cielo nero sfolgorano vermigli,
E i tuoni furiosamente ruggiscono a me la loro musica
E i venti ululano tra le pazze nuvole, nell’opporsi,
E per tutto il cielo lacerato le spade di Dio cozzano.

3
Conceda l’inferno di sentire presto il cozzo delle spade!
E i nitriti acuti dei destrieri che gioiscono nella battaglia,
Petto chiodato opporsi a petto chiodato!
Meglio un’ora di battaglia che un anno di pace
Con tavole opime, lazzi osceni, vino e lieve musica!
Bah! Non c’è vino che eguagli il vermiglio del sangue!

4
E io amo vedere il sole levasi rosso-sangue.
E guardo le se lance per il buio cozzare di armi
E mi riempie il cuore di gioia
E mi empie la bocca di una forte musica
Quando lo vedo così sdegnare e sfidare la pace,
La sua forza solitaria alle grandi tenebre opporsi.

5
L’uomo che la guerra e si accascia opponendosi
Alle mie parole per la battaglia, non ha sangue vermiglio,
Adatto solo a marcire nella femminea pace
Lungi da dove il valore ha vinto e le spade cozzano
Per la morte di tali baldracche io gioisco;
Sì, riempio tutta l’aria della mia musica.

6
Papiols, Papiols, alla musica!
Non c’è suono che uguagli l’opporsi di spade a spade,
Né grido simile all’urlo di gioia in battaglia
Quando gomiti e spade stillano sangue vermiglio
E le nostre cariche cozzano contro l’assalto del «Leopardo»
Maledica per sempre Iddio quelli che gridano «Pace»!

7
E che la musica delle spade vermigli li renda!
L’inferno conceda presto che di nuovo s’oda il cozzar delle spade!
L’inferno cancelli in nero per sempre il pensiero «Pace»!

  

Erat Hora

«Grazie, qualunque cosa avvenga.»  E volta,
Come su fiori penduli la luce
Sfiorisce quando un vento li soleva,
Se n’andava da me. Qualunque cosa
Avvenga, un’ora fu piena di sole
E nulla un Dio di meglio può vantare
D’avere atteso che quell’ora passi.