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martedì 31 gennaio 2012

Georges Dumézil: là dove vive il mito


Una figura come quella di Georges Dumézil (1898-1986), mitografo, linguista, storico delle religioni, offre a chi si vi accosti per la prima volta, desideroso di saperne di più, una panoramica di spunti e di intuizioni talmente ricca e originale da rasentare la genialità. Se con il termine «genio» si intende colui che, simile all’artista, non si fa schiavo pedestre della materia o della disciplina su cui è chiamato a dire la sua, bensì la domina e se ne appropria imprimendovi il sigillo indelebile di una personalità demiurgica, di certo, allora, nessuno più di Dumézil, nel campo di studî che gli fu proprio, merita un tale appellativo.
Miti e Dèi dei Germani (1939), Jupiter-Mars-Quirinus (1941), L’ideologia tripartita degli Indoeuropei (1958), Ventura e sventura del guerriero (1969): sono solo alcuni dei titoli che hanno reso imperitura la fama di questo accademico sui generis, la cui sterminata bibliografia testimonia, essa sola, di una sete di sapere che sconfina, non di rado, nella tendenza alla curiosità intellettuale e alla scorribanda letteraria, tipica, appunto, del «genio». Troppo «eclettico» e «aristocratico», infatti, il nostro Dumézil, perché lo si possa beatamente annoverare tra gli «iperspecialisti», tra quanti, cioè, si nutrono di note a pie’ di pagina e sembra quasi che traggano un insano godimento da sterili polemiche, sempre pronti a scomunicarsi l’un l’altro. 
Sarà per la limpida e sinuosa scorrevolezza della sua prosa; sarà per il fascino provocatorio delle sue monografie, dove ogni argomento, anche il più erudito, ogni dettaglio, anche il più apparentemente insignificante, ogni fenomeno religioso, anche il più evanescente e arcano, si direbbe quasi che palpiti e maturi in perenne comunione con l’autore. Fatto sta che Dumézil è lì, mai distante e distaccato dall’opera sua, sia che ci parli di Mitra e Varuna, sia che si diffonda a piene mani sul significato dell’arcangelo nella teologia zoroastriana. Chiarisce, illumina, sottilizza, postilla, sottrae occulte divinità all’abbraccio dell’oblio, ma non c’è pagina in lui, statene pur certi, che puzzi di chiuso e di lucerna, come succede — ahinoi! — con certi indigeribili manuali. 
Dumézil non sarebbe, diversamente, un «classico», un «classico» del Novecento e dei secoli a venire. È lui che ha riportato alla luce del sole e ci ha insegnato a decifrare, glifo dopo glifo, tassello dopo tassello, l’immenso, dimenticato, sommerso patrimonio della civiltà indoeuropea. È lui, con il suo filo d’Arianna, che ci ha guidato, passo dopo passo, attraverso il labirinto della mitologia greco-romana. È da lui che abbiamo imparato, una volta per tutte, che «i miti non si lasciano comprendere se li si stacca dalla vita degli uomini che li raccontano... essi non sono invenzioni drammatiche o liriche gratuite, senza rapporto con l’organizzazione sociale o politica, con il rituale, con la legge o il costume; il loro ruolo, al contrario, è di giustificare tutto ciò, di esprimere in immagini le grandi idee che organizzano e sostengono tutto questo».
Professore all’Università di Istanbul tra il 1924 e il 1930, durante tutta la sua lunga e apprezzata carriera di studioso, Dumézil tenne corsi e conferenze un po’ ovunque, fu socio di molte Accademie, ricevette tre lauree honoris causa. Viaggiatore indefesso, pensatore cosmopolita per formazione e vocazione, più di tutto, come ebbe a confessare in una delle sue ultime interviste, Dumézil amava la Turchia; quella Turchia dove per molti anni era vissuto e dove, dalla viva voce di bardi anatolici, aveva raccolto le ultime propaggini di antichissime lingue caucasiche, la cui sintassi lo confermava nella sua idea di una sostanziale unità e omogeneità del mondo indoeuropeo. Ne nacquero studî a dir poco fondamentali, quali, tra gli altri, l’edizione dei  Textes populaires ingousches (1932), nonché la Introduction à la grammaire comparée des langues caucasiennes du Nord (1933). Di questa sua produzione filologica, a torto ritenuta «minore», Dumézil andava fiero, convinto com’era che sarebbe passato agli annali per aver salvato da una scomparsa certa quegli idiomi millenari. Il suo nome era destinato, sì, a entrare nella storia, ma per le sue ricerche sulla cosidetta «trifunzionalità», vale a dire, l’idea, che per Dumézil si riflette all’interno della dimensione cosmogonica, di una ripartizione in tre classi delle società indoeuropee.
Una teoria, questa duméziliana, che è sempre stata al centro di contestazioni, di malintesi, di ermeneutiche capziose e interessate. Come è noto, lo stesso Dumézil non la considerò mai alla stregua di una formula fissa e indiscutibile, quanto, piuttosto, una specie di chiave di lettura, un «metodo», capace di restituire armonia e - ove possibile - un supplemento di conoscenza in dominî di ricerca largamente incompresi e disattesi. Anzi, non pago dei risultati raggiunti a questo riguardo, non cessò mai di auto-correggersi, di apportare nuovi elementi a carico o a favore delle sue tesi, che egli sottopose a un’onesta e progressiva messa in discussione. Fu proprio questo «acuto senso dell’incompiutezza», come ha notato Robert Schilling (Georges Dumézil: un’avventura intellettuale,  in «Futuro Presente», n. 3, 1993, p. 14), a indurlo «a scrivere complementi di alcune opere e a riprenderne delle altre», al pari dei «grandi pittori del Rinascimento, che facevano sempre seguire alle loro firme l’imperfetto pingebat e mai il passato pinxit».
Nonostante l’universale riconoscimento della sua indiscutibile competenza, non mancarono, né mancano, critici feroci che, non potendo più di tanto questionare sul contributo di pensiero reso da Dumézil, si sono faziosamente scagliati sulla sua persona e sulle sue presunte scelte politiche. Accusato nientemeno che di simpatie per Hitler, per aver, in un suo libro, indugiato un po’ troppo sui rapporti tra il nazionalsocialismo e la spiritualità celtica, colpevole di simpatie giovanili per l’Action Française, Dumézil, e con lui la sua opera, sconta tuttora - negli ambienti più ottusi - un’ingiusta ipoteca, che mira a offuscare la personalità di uno studioso il cui valore non esce compromesso, neanche minimamente, dalle banalizzanti analisi ideologiche di certi nemici. A quanti — lo storico Carlo Ginzburg in prima linea — gli rinfacciavano una malriposta simpatia per la mitologia germanica e per i suoi sanguinari epigoni, Dumézil rispose come segue, ribadendo, attraverso il suo caso personale, il diritto a non veder calpestata la dignità della cultura in nome di fisime politicistiche: «Si imputa a Giansenio di aver tagliato dall’Augustinus le frasi che sapevano di zolfo. Con me si fa di meglio: si cercano parole che avrebbero dovuto essere scritte e che invece non lo sono state. Rispondo ricordando che non è mia abitudine confondere i generi: una esposizione, anche di cose sgradevoli, non può assomigliare a una requisitoria; considero malsani e pericolosi lo storico, il sociologo, l’etnologo che giudicano moralmente i fatti che constatano e descrivono».  
Giunto all’età in cui altri si dedicano al riposo, Dumézil dà, forse il meglio di sé. Mentre la vecchiaia sopraggiunge, il professore sente sorgere, sempre più forte, l’impulso di viaggiare. Si reca in Perù, tra gli Indios, per «defrancesizzarsi». Ogni anno, poi, con regolarità, torna tra le sue montagne del Caucaso, per incontrare, come confessò una volta, gli ultimi rappresentanti di una umanità più autentica e vera: «Gli Indo-Europei sono morti; questi rapporti mi sono necessari per l’igiene mentale». 

Angelo Iacovella