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giovedì 12 gennaio 2012

Il ciabattino illuminato

Jacob Böhme, Dialogo tra un’anima illuminata e una priva di luce, Il leone verde, Torino 1997. 


Grazie a Dio, lo Spirito soffia dove vuole, anche in una scarpa rotta. Nella storia della mistica cristiana, questa verità — paradossale quanto si vuole, ma non per questo meno vera — si incarna nella figura, più citata che conosciuta, del philosophus teutonicus Jacob Böhme (1575-1624), l’ispirato calzolaio di Lusazia. Böhme, secondo quanto riferiscono le fonti, era abilissimo nell’incollare «la suola alla tomaia». Metafora, questa — neanche troppo velata — del magistero alchemico, il cui fine consiste propriamente nel riunire il cielo alla terra, «ciò che è in basso» (= la suola) a «ciò che è in alto» (= la tomaia), acciocché si compia, in tal modo, il miracolo ermetico della Cosa Una.
Come si vedrà, la compenetrazione del simbolismo alchemico, e dei suoi molteplici significati riposti, è una delle chiavi migliori per accedere, dalla porta principale, al «giardino profumato» della teosofia böhmiana. Dove per «teosofia» si intende — ovviamente — null’altro che la conoscenza «intuitiva» di Dio, la quale sempre e ovunque si manifesta per misteriose vie «illuminative», per bruschi e imperscrutabili «lampeggiamenti». Un dono elargito a pochi, questo della sapienza divina, cui Böhme fu reso partecipe, a dire dei suoi biografi, sin dalla più giovane età; il che non tardò a suscitare, com’era inevitabile, le ire e i sospetti dell’ortodossia luterana, agli occhi della quale niente era più inconcepibile del fatto che un umile artigiano, per giunta autodidatta, si arrogasse il diritto di discettare su argomenti di fronte ai quali i più eruditi tra i teologi dell’epoca arretravano perplessi. Diversamente da questi, Böhme — e le sue pagine lo testimoniano attraverso i secoli al di là di ogni ragionevole dubbio — si era spinto con lo sguardo oltre le soglie della maya, per poi penetrare in quella specie di ottava sfera dove ogni cosa ci appare secondo la sua «essenza» o signatura (termine, questo, tanto caro al Nostro). Scritti emblematici e sibillini come l’Aurora Consurgens del 1612 (la sua prima e più importante fatica letteraria), non si spiegano altrimenti che alla luce di una traboccante e sconvolgente esperienza del divino; esperienza che impregna, dall’alfa all’omega, la  produzione speculativa del Böhme, anche quella generalmente considerata, benché a torto, «minore». In quest’ultima categoria rientra a tutti gli effetti il Dialogo tra un’anima illuminata e una priva di luce, disponibile in traduzione italiana grazie a «Il leone verde», una piccola, ma benemerita casa editrice di Torino, cui si deve la pubblicazione di questa (e di altre) «gemme» della spiritualità universale.


«Una povera anima, vagabondando fuori dal Paradiso, raggiunse il regno di questo mondo, dove incontrò il diavolo che le chiese: “Dove stai andando, anima orba?”». L’operetta si apre con questa domanda, che, per bocca del Tentatore, ci rimanda senza indugi all’eterno dilemma del Bene e del Male, e al problema della lotta dell’uno coll’altro, qui magnificamente simboleggiata nel faticoso «peregrinare» della solitaria Seele da una brama all’altra, in un ostinato arrancare alla ricerca della Lux Perpetua: «Era combattuta interiormente tra il dubbio e la speranza, e solo la forza della propria contrizione le impedì di disperare. Quanto la speranza edificava, il dubbio distruggeva, ed ella stava in continua inquietudine (...), incurante di ogni gioia mondana: ma neppure così poté giungere alla quiete».
Passo dopo passo, mentre il dialogo tra le due anime prosegue, il lettore è portato a identificarsi, di volta in volta, con questa o con quella, per merito delle potenzialità, oserei dire «drammaturgiche», connaturate al testo. Quest’ultimo, pur nella sua brevità, è disseminato, costellato di riferimenti criptici e di sottili allegorie, che rinviano, in ultima analisi, alla migliore tradizione spagirica, nella sua «variante» rinascimentale e paracelsica. Perennemente «avida e affamata», resa simile a un «serpente di fuoco», l’«anima orba» aspira a sottrarsi al soffocante abbraccio della «ruota mercuriale» dell’esistenza, ma perché ciò avvenga — fa capire il Böhme — occorre che essa si sottoponga a progressive mortificazioni e purificazioni, culminanti nella Grande Opera della «rinascita» in Cristo: «Perché di nuovo devi crescere in alto e in basso nell’immagine di Dio: similmente una giovane pianta è mossa dal vento e deve patire caldo e freddo».
Il volume (tradotto e annotato con impareggiabile acribia da Bruno Cerchio), contiene in appendice un ulteriore trattatello, intitolato La vita soprasensibile, il quale idealmente si ricollega al primo e lo completa quanto alle tematiche affrontate. Qui il Böhme dispensa, in forma di colloquio tra un maestro e l’ipotetico discepolo, alcuni dei suoi più profondi e suggestivi insegnamenti spirituali. Alla domanda quanto distino tra loro il cielo e l’inferno, il maestro come segue: «Quanto il giorno e la notte, quanto l’io (...) e il nulla. Sono l’uno nell’altro, ma ognuno è nell’altro come un nulla (...). Il cielo è dovunque nel mondo e fuori del mondo, senza soluzione di continuità, spazio o luogo, e opera tramite la manifestazione divina solo in se stesso». Furono brani come questo che costarono a Böhme l’imputazione di «panteista» da parte della censura ecclesiastica; accusa, questa, che non regge — va da sé — a un’interpretazione onesta e scrupolosa delle sue dottrine, incentrate piuttosto sull’idea dell’uomo come «microcosmo», che in quanto tale gioisce e si «rispecchia» nell’armonia dell’universo. Ha dunque perfettamente ragione Bruno Cerchio quando, in sede di introduzione, a proposito del pensiero di Böhme, scrive che questo «può essere compreso solo se ci si pone esattamente dal punto di vista dell’autore»; sicché, «tali testi risulteranno comprensibili o interpretabili soltanto da coloro che rifuggono (anche solo inconsciamente) dalla lettura “colta” ed esteriorizzante propria alla mentalità moderna».
Angelo Iacovella