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martedì 14 febbraio 2012

Giuseppe Tucci: quella certa idea dell'Oriente




Ventotto anni or sono, esattamente all’indomani del 5 aprile 1984, l’orientalistica italiana si ritrovò d’un tratto orfana di uno tra i suoi «figli» più illustri: Giuseppe Tucci. A partire da allora, tanto tra gli «specialisti», quanto tra i semplici «appassionati» dell’Oriente, sempre più acuta si è fatta la percezione del vuoto, per molti versi incolmabile, lasciato da quella scomparsa; un vuoto fortunatamente — e almeno in parte — compensato dal crescente interesse venutosi a creare intorno alla biografia e alla produzione saggistica di Tucci, l’una, come vedremo, non meno affascinante e significativa dell’altra.
A differenza degli ottocenteschi «professoroni» alla Max Müller (quelli — tanto per capirci — abilissimi nel comporre voluminosi trattati sui paesi più lontani restandosene comodamente seduti in panciolle al chiuso di accoglienti biblioteche), a differenza di questi, dicevamo, l’Oriente Tucci lo aveva — e ci si passi l’espressione — «calpestato», a piedi o sul dorso di un cammello. Da buon marchigiano, due cose — come disse un giorno di sé — aveva amate sopra tutte: «la montagna, come i pastori, e il Sole, come Giuliano l’Apostata». Mai fu, pertanto, quello che si chiamerebbe un «accademico sedentario», anche se avrebbe potuto, volendolo, umiliare chicchessia con il solo sfoderare il suo sanscrito impeccabile, il suo tibetano fluente, il suo giapponese da samurai; idiomi perfezionati nel corso di lunghi e ripetuti soggiorni e andirivieni between East and West, quando ancora ci si spostava a bordo di aristocratici piroscafi. No. Tucci apparteneva, semmai, a quelle paste d’uomo — assai rare al giorno d’oggi — che l’idea di una «tranquilla» carriera universitaria, fine a se stessa, avulsa dalla vita reale, mai avrebbe potuto appagare fino in fondo. Viceversa, in lui — come ha scritto l’indologo Maurizio Taddei, suo discepolo, in pagine di commossa rievocazione — sempre «lo studio a tavolino si accompagnò alla conoscenza diretta dei luoghi e delle genti: fin dal 1925 in India (...), dove conobbe Tagore e Gandhi, poi — dal 1929 al 1948 — otto volte nel Tibet e — dal 1950 al 1954 — sei volte nel Nepal. Da queste spedizioni, imprese ammirevoli anche dal punto di vista fisico (...), egli trasse lo spunto per opere di divulgazione che ebbero ampia e incisiva diffusione non soltanto in Italia» («Giuseppe Tucci (1894-1984)», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, vol. 44, p. 702. Il corsivo è nostro).
Detto questo, ben si capisce come, nel caso di Tucci, un approccio «libresco», tale da scindere artificiosamente lo studioso dal viaggiatore, finirebbe coll’essere troppo riduttivo, e non renderebbe giustizia a un personaggio il cui contributo alla cultura italiana si colloca molto al di là del «chiuso orto» delle discipline orientalistiche intese in senso stretto.

SULLE ORME DI ALESSANDRO
Tucci era nato a Macerata, alla fine del secolo scorso (nel 1894, per l’esattezza). Giovanissimo, dopo aver pubblicato rispettivamente nel 1911 e 1912 due saggi di epigrafia e di antroponomastica latine, si volse all’approfondimento delle civiltà orientali, campo nel quale raggiunse ben presto una competenza universalmente riconosciuta. Sennonché, l’India, la Cina, il Tibet, il Giappone, l’Asia tutta, con il suo primordiale bagaglio di tradizioni, di miti e di riti, rappresentavano, per lui, molto più che delle fredde «materie» su cui affondare il bisturi della ragione ragionante. Vere e proprie «forme dello Spirito»: tali si configuravano, piuttosto, agli occhi del Tucci, le grandi religioni e filosofie orientali, alla cui evoluzione nel tempo e nello spazio egli dedicò i suoi primi saggi, tra i quali Storia della Filosofia cinese (1922), Apologia del Taoismo (1924), il Buddhismo (1926); monografie dove a una sicura padronanza dell’argomento si accompagna uno stile limpido e brillante, sì da soddisfare le esigenze di un pubblico non erudito. Seguiranno lavori più marcatamente «scientifici», a cominciare dai quattro prestigiosi (e ponderosi) volumi di Indo-Tibetica, editi tra il 1932 e il 1941 per i tipi della Reale Accademia d’Italia.
Professore nelle università di Shantiniketan e di Calcutta, Tucci era noto, tra gli Indiani, per i suoi modi eccentrici, che, abbinati alle straordinarie doti personali, ne fecero una «leggenda» vivente. Mircea Eliade, che nella terra del Dio Gange lo aveva conosciuto e frequentato dappresso, ne parlava ammirato, non senza una punta di comprensibile invidia, come di un uomo che, oltre a cavarsela benissimo in «tutte le lingue», era «pure bello e seducente»: «Portava lo smoking con rara eleganza, benché girasse sempre con un manoscritto nella tasca posteriore (...). Non dormiva più di due o tre ore per notte. Si occupava a quel tempo [1929;  n.d.r] della traduzione in sanscrito di alcuni testi di logica cinese. Camminava per la stanza col testo cinese in mano, e traduceva ogni frase a voce alta. Quando non riusciva ad azzeccare la parola esatta, lanciava contro la porta il pugnale con cui giocava. I suoi domestici credevano che invocasse gli spiriti e lo abbandonavano gli uni dopo gli altri (...). Le ampie finestre aperte sulla campagna, la lampada accesa tutta la notte in una stanza dove i libri e i manoscritti erano sparpagliati per terra e dentro alcune casse aperte o su mensole ricoperte di polvere. Tucci si muoveva da un angolo all’altro, il pugnale in una mano, il testo cinese nell’altra (...).
L’ultima volta che lo incontrai è stato sulla nave che ci portava entrambi verso l’Europa (...). Lo scorgevo talvolta nel salone di prima classe mentre leggeva una commediola sanscrita e rideva fra sé, così che le inglesi si giravano sussurrando in francese per non essere intese dal poveruomo: «C’est un peu fou et très comique, n’est-ce pas?...». La notte passeggiavamo tutte e due in coperta ed egli mi faceva l’analisi dei più oscuri sistemi filosofici indiani, mi raccontava le biografie di lama morti cinque secoli prima (...). Una volta, allorché mi si chiudevano le palpebre dal sonno e gli davo la buonanotte, mi disse: «Non so che cos’ho, non riesco più a dormire del tutto». Lo guardai negli occhi e lui distolse immediatamente lo sguardo, lasciandolo riposare sull’oceano. Ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a un uomo che voleva sfuggire a qualcosa, confessare qualcosa di straordinario, di terribile. Forse una solitudine impietrita come quell’oceano che ci circondava» (M. Eliade, Diario d’India, Torino 1995, pp. 62 e ss.).

UNO SGUARDO AD ORIENTE
Al principiare degli anni Trenta, tornato che fu in patria, Tucci indirizzò tutti i suoi sforzi alla realizzazione di un istituto di studi orientali, con cui colmare i troppi e ingiustificabili ritardi accumulati dal nostro paese in quello specifico campo. Nacque così, nel 1933, con il fondamentale aiuto — non bisogna dimenticarlo — di Giovanni Gentile, l’IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente). Tucci — con il geniale intuito di chi precorre i tempi — volle e ottenne che a questa sua «creatura» venisse riconosciuta libertà di movimento e un’assoluta autonomia dalle istituzioni accademiche già esistenti, per le quali — in verità — non nutriva una grandissima considerazione. Confessò anzi, più volte, di trovarsi a disagio nell’università italiana, che gli appariva come una specie di «malconnesso rottame». Fu anche questa sua, mai sopita, insofferenza per un sapere schiavo delle note a pie’ di pagina, che lo spinsero a farsi guida e promotore di importanti spedizioni archeologiche, tra cui quella che lo condusse, nel 1955, alla valle dello Swat, nelle impervie e malnote regioni del Pakistan settentrionale. Le numerose «missioni» intraprese per conto del governo italiano, confermarono ulteriormente Tucci nell’idea di una sostanziale unità culturale del continente «euroasiatico», pur nella incontrovertibile pluralità delle esperienze storiche, linguistiche e religiose: «Troppo spesso si discorre di un’essenziale incomunicabilità dell’Oriente e dell’Occidente, di irreparabili divergenze e contrasti; ma chi esamini a fondo la cultura asiatica, a parte le naturali differenze e varietà e diverso modo di considerare l’uomo e la vita e di esprimere nell’arte o nel pensiero le proprie ansie ed aspettazioni, o nella filosofia e nelle religioni i propri problemi e le proprie intuizioni, vi troverà tuttavia la rifrangenza variamente colorata delle stesse cure e angosce e speranze che hanno agitato, tormentato e illuminato il nostro cammino» (introduzione a AA.VV., Le civiltà dell’Oriente, Roma 1956). 
Molti sono i volumi usciti dalla penna di  Tucci «esploratore», e ognuno — naturalmente — meriterebbe una disamina a parte. Ci limitiamo a ricordarne alcuni: Santi e Briganti nel Tibeignoto (1937); A Lhasa e Oltre (1950); Tra giunge e pagode (1956). Nepal. Alla scoperta dei Malla (1960). Pagine insuperabili di storia, di arte, di archeologia, di antropologia dell’Asia, nelle quali, più che altrove, la «vena narrativa» dell’autore scorre libera e felice. Lo sguardo di Tucci si posa, curioso,  sulle colonne di un tempio, prende nota di una lapide, oppure ci descrive la veste stracciata di un sadhu o monaco ambulante. Come per incanto, anche il più insignificante dei dettagli si anima e rivela il senso arcano di un interrogativo millenario.
Si spense novantenne, in quel di S. Polo de’ Cavalieri, un turrito paesino non molto distante da Roma, il cui paesaggio gli ricordava gli immortali altipiani dell’Asia Centrale. Aveva viaggiato molto, troppo per non rendersi conto che più ci si inoltra lungo sentieri nascosti e lontanissimi, alla ricerca di qualcosa, più la sete di conoscere cresce e si dilata. Ogni scoperta risolve domande e altre ne pone. Ma di questo Tucci mai si dolse, perché sapeva, meglio di chiunque altro, che «dove c’è mistero l’uomo può imaginare e dove c’è certezza solo disperare». 

Raimondo di Pennaforte



CRESTOMAZIA TUCCIANA

Io ho sempre considerato le credenze umane — quelle che i padri ci trasmettono con il sangue e che troviamo quasi solidificate nelle opinioni comuni fino a che nuove idee, insinuandovisi, non le sconvolgono — come una realtà invisibile, logicamente indimostrabile eppure presente e viva assai più delle cose che si toccano con mano: un’aura misteriosa che ci avvolge e nella quale ci muoviamo e che ad andarci contro ci si sente quasi mozzare il fiato, come succede a chi corra contro vento. Per la qual cosa, dovunque mi trovi, cerco sempre di mettermi in sintonia con cotesta atmosfera spirituale che io sento nuova e diversa, ma che mi investe e poi mi trascina. Anche adesso debbo dimenticarmi di essere un europeo, abituato a giudicare tutto al lume della logica e a distillare concetti con l’alambicco dell’intelletto; debbo quasi dissolvere la mia personalità nel subconscio collettivo di questo popolo che mi ospita, come in un mare tranquillo sul quale ancora non freme vento di opinioni nuove e ribelli. Prima di mettermi in camino farò come fanno i Tibetani che, sul punto di intraprendere un viaggio o, comunque, quando avvertono per misteriosi suggerimenti la imminenza di forze ostili, ricorrono a una cerimonia propiziatoria ed esorcistica che si chiama barcè selvà «eliminazione degli ostacoli» (...).
Certi riti non si capiscono con la descrizione che ne puoi leggere sui libri; bisogna vederli. E poi, chissà? Io per natura ho sempre creduto più alle cose che non vedo che a quelle di cui la scienza mi vuole far certo e che oggi sono in un modo e domani in un altro. Togli all’uomo l’imprevisto ed il mistero ed il vivere si riduce a un noioso transito di cibo.
(A Lhasa e oltre)



Altri fondava imperi: gli italiani preferirono essere apostoli di cultura, fecero da ponte. Ed è la nostra gloria. Non c’è opera fondata sull’azione che non invecchi, si dissolva, si schianti; gli imperi crescono e si dilatano con una logica fatale e capricciosa in una potenza che come un fuoco d’artificio sale, s’espande in lucente girandola, scintilla in un ardore di vita e di morte per spegnersi sollecita nel buoi del nulla: e di sè lascia soltanto faville di rancori e di odi. Invece la rivelazione dell’arte, la collaborazione nel pensiero, il generoso rispetto per le infinite modulazioni della mente e dello spirito sono dono e ricchezza che il tempo non logora. Lo vedete. Oggi la parentesi che condusse l’Occidente a dominare sull’Oriente è conclusa. L’Asia si è redenta: questa è la realtà irrevocabile alla quale è stolto o vano chiudere gli occhi (...).
Rispetto ai tempi di Marco Polo, più sottili ma non per questo più cedevoli incomprensioni, prevenzioni, impressioni od incompatibilità gettano un’ombra cieca sulla prossimità fra l’Asia e l’Europa che il mondo, rimpicciolito dalla tecnica, ha reso quasi coabitazione; e per causa di quel fraintendimento la prossimità fisica non diventa spirituale. L’opera che Marco annuncia non è dunque ancora compiuta. Egli splende della grandezza eterna dei simboli, pioniere, allora ed oggi, di una comunione fiduciosa fra due culture antichissime; e guida perché queste, congiungendosi, nella fratellanza che è privilegio delle cose dello spirito, cooperino per il comune bene a nuove armonie di pensieri e di imagini, sola illusione d’eternità che galleggia sulla insaziata voracità del tempo. 
(Marco Polo)

La storia della religione indiana può definirsi un faticoso tendere alla conquista della autocoscienza; e, naturalmente, quel che si dice della religione, si deve ripetere della filosofia, com’è da attendersi in un paese dove religione e filosofia restarono fuse nell’unità di una visione (darçana) che serve ad una esperienza (sadhana). In India l’intelletto non ha mai così prevalso da sovrapporsi alle facoltà dell’anima e distaccarsene in modo da provocare la pericolosa scissione tra sè medesimo e la psiche, che è malattia di cui soffre l’occidente (...). L’intelletto puro, distaccato dall’animo, è la morte dell’uomo; l’intelletto, troppo presumendo di sè ed isolandosi in una boriosa compiacenza, invece di nobilitare l’uomo lo umilia e lo spersonifica: uccide quella amorosa partecipazione alla vita delle cose e delle creature di cui l’anima è capace con le sue emozioni ed intuizioni; l’intelletto per sè solo è cosa morta ed assassina, un principio di disintegrazione. In India invece l’intelletto non si è mai dissociato dall’anima, di maniera che il mondo del subconscio non fu mai negato e respinto ma convogliato e trasfigurato in un processo armonioso inteso a riconquistare la autocoscienza: coscienza di un io che non è, naturalmente, l’io singolo, ma l’Io, la coscienza cosmica da cui tutto deriva e a cui tutto si riconduce.
(Teoria e pratica del mandala)


Campagne di scavo, viaggi di esplorazione e simili ricerche, intraprese con più vasto raggio e con maggiore impegno, dovrebbero continuare l’antica nostra tradizione umanistica, ardente e disinteressata, che fu ponte spirituale tra Oriente e Occidente e a poco a poco far cadere l’illusione che il sole splendesse soltanto in Europa e quivi unicamente l’uomo fosse privilegiata creatura nella quale, in perfetto e quasi divino equilibrio, l’imaginazione si congiunge alla sottigliezza logica ed il fuoco dell’estasi mistica viene mitigato da una spensierata bramosia di vita. In questo puntiglioso periodo nel quale viviamo, quando l’ingegno sembra tutto intento a scoprire, definire, inasprire le native necessarie diversità tra le opinioni ed i popoli, occorrerebbe più che mai secondare codeste imprese. Esse infatti accrescono prestigio al paese che le compie ed insieme rendono omaggio alla cultura d’altre stirpi, nell’abbraccio sereno della cultura ritrovando, sotto ogni cielo, quella medesima nostra umanità che tanto odia ed invece dovrebbe tanto compatire: perché dovunque e dappertutto, come ammonisce un filosofo indiano, risuona la medesima domanda senza risposta: «si ottengano pure ricchezze tali che soddisfino ogni desiderio, e poi? si ponga pure il piede sul collo del nemico, e poi? si colmino pure di agi e di onori tutti quelli che ci sono devoti, e poi? ci sia pur concesso di vivere mille anni, e poi?».
(Tra giungle e pagode)


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE TUCCIANA

Scritti di Mencio. Lanciano, Carabba 1921.
Storia della filosofia cinese antica. Bologna, Zanichelli 1922.
Apologia del Taoismo. Roma, Formiggini 1924.
Il Buddhismo. Foligno, Campitelli, 1926.
Saggezza cinese. Torino, Paravia 1926.
Indo-Tibetica I. Roma, Reale Accademia d’Italia 1932.
Indo-Tibetica II. Roma, Reale Accademia d’Italia 1933.
Indo-Tibetica III. Roma, Reale Accademia d’Italia 1935.
Indo-Tibetica III (parte II). Roma, Reale Accademia d’Italia 1936.
Santi e briganti nel Tibet ignoto. Milano, Hoepli 1937.
Forme dello spirito asiatico. Milano-Messina, Principato 1940.
Indo-Tibetica IV. Roma, Reale Accademia d’Italia 1941.
Il Buscido. Firenze, Le Monnier1942.
Il Giappone. Tradizione storica e tradizione artistica. Milano, Bocca 1943.
Asia religiosa. Roma, Partenia 1946.
Il libro tibetano dei morti. Milano, Bocca 1949.
Tibetan Painted Scrolls. Roma, Libreria dello Stato1949.
Teoria e pratica del Mandala. Roma, Astrolabio 1949.
Italia e Oriente. Milano, Garzanti 1949.
A Lhasa e oltre. Roma, Libreria dello Stato 1950.
Tra giungle e pagode. Roma, Libreria dello Stato 1953.
Marco Polo. Roma, IsMEO 1954.
Minor Buddhist Texts I. Roma, IsMEO 1956.
Storia della filosofia indiana. Bari, Laterza 1957.
Minor Buddhist Texts II. Roma, IsMEO 1958.
Le grandi vie di comunicazione Europa-Asia Torino, Edizioni Radio Italiana 1958.
Nepal. Alla scoperta dei Malla. Bari, Leonardo da Vinci 1960.
La via dello Svat. Bari, Leonardo da Vinci 1963.
Tibet, paese delle nevi. Novara, Istituto Geografico de Agostini 1967.
Il trono di diamante, Bari, De Donato 1967.
Rati-lîlâ. An interpretation of Tantric imagery of the temples of Nepal. Geneva, Nagel 1968.
Le religioni del Tibet. Roma, Edizioni Mediterranee 1970.
Opera Minora (2 voll.). Roma, Bardi 1971.
Minor Buddhist Texts III. Roma, IsMEO 1971.
Tibet, Ginevra, Nagel 1973.

* Per un elenco bibliografico esaustivo, vedasi: Luciano Petech e Fabio Scialpi, «The Works of Giuseppe Tucci», in East and West, vol. XXXIV, nn. 1-3 (settembre 1984), pp. 23-42.  Ulteriori approfondimenti sul significato dell’opera tucciana, li si potrà ricavare dalla lettura del volume miscellaneo Giuseppe Tucci nel centenario della nascita, Roma, IsMEO 1995, a cura di Beniamino Melasecchi.