Visualizzazioni totali

domenica 5 febbraio 2012

Imperfectum meum viderunt oculi tui: il mito del Golem


Nihil sub sole novi. Mentre — tra crisi economica e profezie maya sulla fine del mondo (o di un mondo?) — ci si interroga angosciati sul futuro, gli scienziati lavorano nell’ombra alla clonazione dell’essere umano, l’ultimo passo verso la manipolazione della specie, già prefigurata in altri tempi dal mito del Golem.
Fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere questa creatura enigmatica, partorita dalle manipolazioni cabbalistiche di un vecchio rabbino di Praga. Il Golem non poteva nascere in un luogo diverso. Praga: «capitale magica, «arena di sortilegi, vivaio di fantasmi», per usare le parole di Angelo Maria Ripellino. Basta evocarla perché si venga colti da strani e oscuri presagi, quasi si fosse alle soglie di un teatro grandguignol: tetri manieri, vicoli tortuosi, guglie barocche, austere sinagoghe, lugubri cimiteri, botteghe traboccanti di ampolle e di altre infernali cianfrusaglie. Tale doveva essere, almeno in parte, l’aspetto della città boema durante il regno del folle imperatore Rodolfo II d’Asburgo (1576-1612), personaggio dalle mille stravaganze. Spetta a quest’ultimo il merito di aver attirato alla sua corte il fior fiore degli esoteristi occidentali (tra cui John Dee e Giordano Bruno), con la conseguenza di trasformare Praga in un crocevia di apprendisti stregoni, in un caravanserraglio di alchimisti e di ciarlatani di tutte le risme e paesi.
Il mito talmudico del Golem, di origine medievale e affondante le sue radici nella tradizione biblica, assunse — con il tempo — una portata talmente universale da superare i confini dell’ebraismo per ricollegarsi, come giustamente ebbe a sottolineare  Alfonso Di Nola, al «sogno di ricostruire [...] l’uomo artificiale».
In poche parole, il Golem si può paragonare a una specie di robot ante litteram, un fantoccio vivificato dall’uomo mediante il potere insito nel Nome tetragrammatico e nelle lettere dell’alfabeto (cfr. la monografia di Gian Paolo Ceserani, I falsi adami. Storia e mito degli automi, Milano 1969). Secondo la leggenda, molti rabbini, primo fra tutti il celebre Jehudah Loew, usarono — e a volte abusarono — di un tale potere, che deriva dall’unico e legittimo Creatore, il Dio dal Nome Ineffabile o Shem ha-meforash
Questa, la storia. Al tempo di Rodolfo, il pio rabbi Loew ne creò uno, affinché, come un  fede guardiano, proteggesse il popolo del ghetto dalle persecuzioni. «Seguendo certe istruzioni della Cabala andate perdute», egli si recò in compagnia di due assistenti sulla riva della Moldava, e una volta lì completò la Grande Opera, inserendo nella bocca del Golem una lamina, su cui aveva in precedenza trascritto il Sacro Shem: «Non ne sarebbe uscito un uomo davvero, ma solo un essere animato da un’oscura e semicosciente vita vegetale, e  anche questo soltanto durante il giorno e in virtù di un magico bigliettino che gli veniva messo dietro i denti, onde si alimentasse delle spontanee energie sideree dell’universo. E quando una sera, prima della preghiera consueta, il rabbino dimenticò di togliergli dalla bocca il sigillo, il Golem sarebbe caduto in un delirio furioso, aggirandosi nell’oscurità delle strade e distruggendo tutto quanto gli capitava sottomano. Alla fine il rabbino gli si sarebbe gettato contro, riuscendo a strappare il pezzo di carta dalla bocca del Golem, che sarebbe piombato di schianto senza vita al suolo. Di lui non restò che il corpiciattolo di argilla, che ancor oggi viene mostrato nella vecchia sinagoga» (così Gustav Meyrink, Il Golem).
Capace di muoversi, ma non di esprimersi per verba; mite fino all’innocenza, goffo, disarmante: ecco le caratteristiche proprie del nostro umanoide, metafora dell’uomo moderno, vittima del materialismo e degli strizzacervelli. La sua effigie, riveduta e corretta, ritorna nel Frankenstein di Mary Shelley e, naturalmente, nelle «macchine pensanti» di Isaac Asimov, scrittore a cui l’umanità deve eterna riconoscenza per la codificazione delle tre leggi fondamentali della robotica.
L’allegoria prometeica dell’«uomo creato dall’uomo» non si ferma però qui. Fu uno scrittore «occultista», per l’appunto il già citato Gustav Meyrink, a renderla popolare con un romanzo pubblicato nel 1913 e venduto da allora in migliaia e migliaia di copie: Der Golem. Innumerevoli lettori furono (e restano tuttora) affascinati dalla vicenda che si snoda tra le pagine del libro; tra questi, un giovane Kafka, che confessò più tardi la sua ammirazione per il modo magistrale con cui l’autore aveva ricostruito le atmosfere del ghetto praghese, i suoi «angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche...». Nell’opera, il  protagonista scambia  il suo cappello con quello di un certo Athanasius Pernath. Questa circostanza, del tutto imprevista, lo precipita in una vicenda faustiana, costringendolo a vivere, tra deliri e faticose illuminazioni, un’esistenza che non gli appartiene.
Sulla scia del capolavoro letterario di Meyrink, e grazie al successo del film omonimo girato dal regista espressionista Wegener (1920), la Golemlegende irrompe così nell’immaginario collettivo del XX secolo, gettando dagli schermi la sua ombra sinistra su di noi.

Raimondo di Pennaforte