Jürgen Czaschka — nato a
Vienna nel 1943 — è un solitario, ma non perché abbia abbracciato lo stereotipo
bohémien dell’artista timido e insicuro.
No. Lo è semplicemente perché glielo impone una ferrea, superba, per certi
aspetti crudele, «abnegazione» alla sua opera, il desiderio di annullarsi, di
scomparire completamente in essa. Autore alquanto prolifico di impeccabili
incisioni al bulino, da autodidatta assoluto Czaschka è pervenuto, mediante
ascetica disciplina, a esiti che testimoniano di un lucido e pienamente
soddisfatto «dominio» del mezzo espressivo. Un dominio che è frutto, altresì, di
una spiccata e beninteso innata «vocazione alla forma», che gli ha permesso e
gli permette tuttora — in qualsiasi circostanza — di padroneggiare a suo
piacimento le innumerevoli potenzialità insite, per l’appunto, nel segno,
apparentemente scabro, del bulino.
In Czaschka, il
virtuosismo tecnico — che pure ha fatto di lui uno degli incisori attualmente
più apprezzati tra i collezionisti e gli amateurs d’estampes di area germanica
— non è mai fine a se stesso. Ancorché sufficientemente vasta, la sua produzione
non risente, neanche lontanamente, del ghiaccio accademismo tipico, che so, di
una certa grafica mitteleuropea contemporanea, dove si cerca, ma invano, di
ovviare all’assenza di una Musa facendo leva sui turgidi quanto sterili
artifici del «mestiere».
Czaschka, piuttosto, si
muove — e i suoi lavori stanno lì a dimostrarlo in maniera lampante —
nell’ambito di un sentimento mitopoietico della vita e della realtà, per mezzo
del quale, ogni volta, egli riesce miracolosamente a esorcizzare i demoni da
lui stesso evocati, che finirebbero, altrimenti, per stritolarlo. La dittatura
della tecnologia, la mercificazione dello spirito, la banalità del male: rebus,
enigmi, sciarade, che Czaschka affronta — e risolve — in virtù di una
particolare sensibilità estetica e di una spissitudo spiritualis tutta
sua, che gli derivano entrambe da una, tutt’altro che superficiale, cultura di
matrice storico-umanistica, a cui non va disgiunta la costante frequentazione
dei massimi esponenti del pensiero, della musica, dell’arte e della letteratura
tedesche, da Friedrich Nietzsche a Richard Wagner, da Ernst Jünger a Gottfried
Benn. Individualità titaniche ed emblematiche di un certo modo di concepire il
mondo, alle quali Czaschka si è ispirato in alcuni dei suoi più straordinari ex
libris.
Un nichilismo tragico e
disperato pervade il corpus incisorio czaschkiano, che pullula di
divinità millenarie dalla muscolatura erculea, di maschere atroci e beffarde,
di larve subumane condannate a struggersi nell’attesa senza fine di un riscatto
impossibile. Un universo dove ogni gioia sembra bandita, a meno che non ci si affidi all'Arte.
Raimondo di Pennaforte