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sabato 11 febbraio 2012

Scienza sacra e conoscenza: Titus Burckhardt



Titus Burckhardt — da non confondersi con l’omonimo Jacob — nacque a Firenze nell’anno del Signore 1908, figlio dello scultore elvetico Carl Burckhardt, e scomparve a Losanna nel 1984. Rampollo di un insigne casato originario di Basilea, il cui fronzuto albero genealogico largheggiava di artisti e letterati, il giovane Titus crebbe come immerso nella rarefatta atmosfera intellettuale che aleggiava tra le pareti, tutt’altro che asfittiche e stagne, della dimora avita. Al raggiungimento della maggiore età, non sappiamo se per formale ossequio a una, chiamiamola così, “prassi di famiglia”, lungamente respirata, o se per una naturale, innata tendenza ad amare il “Buono e Bello” di classica memoria, scelse — senza esitazioni — di abbracciare la professione paterna, consacrandosi contemporaneamente allo studio dell’arte e dell’architettura, specie di quelle antiche e medievali.


Alla scoperta dell'Oriente 

Nel 1935,  in occasione di un viaggio in Marocco, Burckhardt restò affascinato dalla civiltà islamica e dalle sue forme espressive meno scontate, come, ad esempio, l’organizzazione  delle locali corporazioni di mestiere e l’artigianato: tutti frutti tangibili di una cultura materiale (e immateriale) più che millenaria, a cui Burckhardt si accostò con un rigore metodologico e filologico scevro dalle fantasie di un certo orientalismo di stampo esoticheggiante. Si iscrisse, pertanto, all’Università di Fez, tra le più antiche e prestigiose del mondo musulmano, i corsi della quale spaziavano, come nel Medioevo, dalla teologia alla scienza, dall’esegesi coranica al diritto, dalla filosofia alla grammatica.
Iniziato ai ‘meccanismi cabbalistici e numerologici che presiedono al funzionamento della lingua araba (idioma santo per eccellenza), Burckhardt se ne avvarrà, successivamente, come di una chiave, per farsi strada tra i testi, il più delle volte ermetici, dei principali esponenti dell’esoterismo islamico; primo fra tutti, quel Muhyiddîn Ibn ‘Arabî (1165-1240), magister maximus della speculazione sufica, del quale avrebbe, con mirabile aderenza all’originale, tradotto e commentato una delle opere dai contenuti più complessi: La Sapienza dei Profeti (Paris, 1955; titolo originale: Fuçuç al-Hikam; pubblicata in Italia per tipi delle Mediterranee, nella collana, fondata e diretta da Evola, «Orizzonti dello Spirito»).
Il triennio che si estende dallo scoppio della seconda Guerra Mondiale al 1942, vede Burckhardt alacremente impegnato a perfezionare la sua formazione accademica presso l’ateneo di Basilea, dove, appunto, si addottora in lingue orientali e in storia dell’arte: due branche del sapere, due “passioni”, da cui la sua fertile e impeccabile produzione di saggista sarà sempre fecondata. Assume, in seguito, la direzione della «Urs Graf Verlag», una casa editrice specializzata nella riproduzione in facsimile di manoscritti miniati, tra quali ci limitiamo a ricordare il «Libro di Kells» e l’«Evangelario Lindisfarne». Tornerà in Marocco tra il 1972 e il 1977, in veste, questa volta, di delegato dell’UNESCO, con il compito di guidare una commissione di esperti incaricati della salvaguardia dell’antiqua forma urbis di Fez e del suo incomparabile patrimonio monumentale.


Scienza versus conoscenza

Ben si inserisce, la figura di Burckhardt, nell’ambito di quella corrente di pensiero alla quale, per comodità, si è convenuto di attribuire la definizione di “spiritualista” o “tradizionale”. Dove per “tradizione” è da intendersi quell’insieme di dottrine e di insegnamenti di matrice sovrasensibile, che in virtù di questo loro stretto atteggiarsi in rapporto alla sfera della “metafisica”, trascendono di gran lunga la ragione logica e calcolatrice di cui tanto fieri vanno gli occidentali “sviluppati”. Nell’ottica di Burckhardt, la “conoscenza” è, nel senso più nobile e ampio del termine, il portato di una «visione realmente spirituale delle cose», e non, checché ne pensino e ne dicano i cocciuti alabardieri dello scientismo, un bruto accumulo di nozioni empiriche  cartesianamente desunte dall’osservazione della materia, tale e quale: «La “grande” prova a favore della scienza moderna — come osservò acutamente a questo riguardo — sta nel suo successo tecnico; esso ha un grosso peso nella coscienza della folla, ma un peso assai minore agli occhi degli scienziati che si rendono perfettamente conto quante volte una scoperta tecnica sia stata fatta sulla base di teorie del tutto insufficienti o addirittura errate (…); una teoria può infatti cogliere la realtà della natura nella misura in cui una certa applicazione tecnica lo richieda, e tuttavia ignorarne la vera essenza» (in: Scienza moderna e saggezza tradizionale, Torino, Borla 1968, p. 45).
Paradossalmente, per Burckhardt, il difetto genetico inscritto nel DNA di una certa mentalità positivistica non sta tanto nello scalpitante “progresso” della téchnē,  che a questa si è accompagnato e si accompagna tuttora — progresso, in ogni caso, sempre più foriero di «effetti micidiali in tutto il regno del vivente» —, quanto, piuttosto, nella pretesa faustiana di tutto spiegare, di tutto interpretare, alla luce di un “canone” razionalistico, allergico, per antonomasia, all’idea di Dio. Pretesa la quale, a conti fatti, non può che tradursi nel «capovolgimento metodico» di tutte le «gerarchie visibili in questo mondo», nel «fatto di subordinare gli aspetti qualitativi dell’esistenza a quelli quantitativi (…), di ricondurre dati psichici a dati meramente fisiologici..».


Deus Absconditus

Prigioniero di questa concezione profana del mondo e della vita, stando a Burckhardt, l’uomo dell’evo moderno ha finito, dunque, per recidere quella rete di “fili” sottili, e quasi impercettibili, che facevano sì che i suoi progenitori si sentissero parte integrante del cosmo circostante, e non malate “escrescenze” di un universo governato da demiurghi muti e capricciosi. Al Dio-creatore delle grandi religioni monoteistiche, si è, così, via via sostituita la “Grande Illusione” dell’Ego, alimentata a dismisura dai fumosi arzigogoli abracadabranti e dal «relativismo disintegrante» della  psicoanalisi. Freudiano o junghiano che sia, lo psicoanalista — afferma  Burckhardt senza peli sulla lingua — sembra aver assunto il ruolo e il carisma che, in altri tempi, spettavano al sacerdote «nel sacramento della confessione». Sennonché, mentre «nella confessione sacramentale il sacerdote non è che il Vicario impersonale — e perciò necessariamente riservato — della verità divina che condanna e perdona (…)», nel caso della psicologia contemporanea, «l’uomo non si mette psichicamente a nudo dinanzi a Dio, bensì dinanzi al suo prossimo; egli non si distanzia dai sottofondi caotici e tenebrosi della propria psiche rivelatigli dalla analisi, ma anzi li fa suoi…».


Sacralità dell'arte

In un mondo siffatto, dove tutta la gamma delle esperienze possibili e immaginabili sembra fatalmente destinata a scadere nel soggettivismo più esasperato, è inevitabile che tutti i fenomeni estetici ne risentano in senso negativo. Burckhardt, in opere come Siena, città della vergine (1958) o Chartres und die Geburt der Kathedral (1962), si è a lungo soffermato sugli elementi distintivi che, in antico, conferivano a questo o quell’edificio, a questa o quella creazione dell’ingegno umano, un’aura indelebile di “sacralità”. Un’opera artistica, o anche poetica (basti pensare alla Divina Commedia), può dirsi dunque sacra, nella “accezione” burckhardtiana, purché — conditio sine qua non — sia espressamente baciata da una «visione spirituale», che ne impronti la forma e il contenuto. Rientra infatti nella natura dell’arte sacra «d’essere insieme vera e bella, così toccando tutti gli strati dell’anima e al tempo stesso il cuore, la ragione, l’immaginazione e la percezione sensibile, colmandoli del presagio dell’unità divina». 
In poche parole: è ancora Dio che fa la differenza.

 Angelo Iacovella