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lunedì 6 febbraio 2012

Su Dioniso e la filosofia: la lezione di Colli

Giorgio Colli, Filosofi sovraumani, Adelphi, Milano 2009, pp. 172. 



L’attento osservatore di cose culturali nel nostro paese, non può esimersi, alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni, dal rilevare che alcuni pensatori e studiosi, del tutto estranei alle correnti intellettuali che hanno prevalso nel dopoguerra in Italia, stanno venendo riscoperti e studiati dal mondo accademico e anche dal grande pubblico, in forza soprattutto del fatto che le loro idee e le loro opere hanno fruttificato ben più di quanto non sia accaduto a quelle di loro colleghi, certamente meno distanti e appartati di loro, nei confronti all’establishment delle patrie lettere. E’il caso di autori, per citare solo qualche nome, del livello di Julius Evola, Giuseppe Rensi e, soprattutto, di Giorgio Colli. Di quest’ultimo, filologo-filosofo, noto anche ai non specialisti per aver curato l’edizione critica delle opere di Nietzsche, assieme al discepolo Montinari, nonché per essere l’autore dei tre volumi della Sapienza greca, la casa editrice Adelphi ha dato alle stampe, recentissimamente, la prima parte della tesi di laurea, discussa con Gioele Solari nel 1939 a Torino, con il titolo di Filosofi sovraumani. Del resto, la seconda parte della tesi, era stata pubblicata dalla stessa casa editrice, nel 2007, con il titolo Platone politico. Nel volume che qui presentiamo, si sostiene, a proposito della nascita della filosofia, che in Grecia, nel sesto secolo a.c., si verificò un incontro epocale: quello tra una visione eminentemente politica della vita e una visione mistica, che produsse il sapere riconnettevo che, proprio allora, e non casualmente, assunse il nome di filo-sofia. Per Colli, ciò che in realtà accadde in Grecia in quel lontano passato, fu l’irruzione del dionisismo che, al contrario di quanto abitualmente si pensi e si creda, non era un fenomeno di origine orientale, ma autoctono, di provenienza minoico-cretese. Con questo nome, secondo l’autore, bisogna intendere: “L’impulso a superare tutto ciò che è umano”. Se ciò è vero, ha certamente ragioni da vendere Enrico Colli, figlio del filosofo, nella prefazione del libro in questione, a sottolineare come l’uso paterno del termine misticismo, riferito ai misteri e soprattutto all’elaborazione filosofica dei contenuti del dionisismo, sia improprio. Infatti, egli sostiene che: “Mistico significa soltanto iniziato” (p. 14), si riferisce a colui che ha conseguito una conoscenza non alla portata di tutti. In quale senso deve intendersi, per Colli, dunque, quella particolare forma di conoscenza che è, al contempo, un modo di esperire e vivere la stessa esistenza, e che allora assunse il nome di dionisismo? Certamente non appiattendo, come aveva, almeno in parte, erroneamente fatto Nietzsche, nella sua ormai classica descrittiva, questo evento culturale all’orgiasmo, cioè a uno stato allucinatorio e/o estatico, esemplificato ritmicamente da danze e musiche coribantiche, rappresentato da un’emotività senza controllo, di tipo passivo e tellurico. 


La novità dell’analisi di Colli è da individuarsi nel carattere di liberazione conoscitiva che egli attribuisce al dionisismo, proponendone una lettura gnosico-ascetica, in quanto, al culmine dell’eccitazione, nei riti in questione, subentrava una rottura contemplativa, un distacco conoscitivo. Alla luce di ciò, Dioniso non può certo considerarsi come dio della fertilità, poiché la sua potestas si riferisce alla  dimensione conoscitiva, alla via di verità. Per questo dette avvio, nell’incontro con l’ethos eminentemente politico dei Greci, alla filosofia presocratica che, nelle pagine di Colli, si configura come elaborazione di una suprema politicità: quella della polis - cosmos, della città stato - universo, che ha nell’arché, nella signoria, nella giustizia – giustezza, il luogo del proprio stanziarsi. E ciò, naturalmente, a partire da Anassimandro che, sfidando teatralmente il proprio tempo, interpretò il contenuto della sua gnosi in termini di una superiore politicità: ritradusse, quindi, quel sentimento interno che lo aveva salvato dal pessimismo mistico, e che rappresentava l’ordine spirituale che aveva effettivamente conseguito in vita, nella ricerca di una politicità che, rispecchiando i ritmi cosmici, come recita il suo aurorale frammento, realizzasse un’idea di giustizia, non semplicemente giuridica, alla luce della quale, ogni atto umano doveva essere compiuto con la coscienza rivolta a una realtà superiore e infinita. In questo contesto, Eraclito, nel giudizio di Colli, certamente rappresenta la più completa personalità dionisiaca della Grecia: egli parte dall’interiorità, vi trova il mondo, finendo per annegare, così, la propria personalità nella realtà universale. Il sapiente è colui che, identificando il logos individuale a quello cosmico, sente la necessità di allontanarsi da ogni comunanza con i propri simili, al fine di scegliere la strada della possibile divinizzazione dell’umano. Ma nonostante ciò, il saggio di Efeso, non riuscì a tacitare la vocazione politica, erompente anche dentro di lui: per questo si dette allo scrivere, nella speranza di illuminare il cammino di chi avesse voluto osare la via della liberazione. Parmenide, proseguendo lungo questa percorso, divenne il fondatore della logica: gli interessava l’educazione alla verità di un’aristocrazia, per porla in grado di guidare la polis secondo conoscenza. Questa gnosi è la semplice traduzione, in termini di razionalità, di quanto Parmenide ha, nel suo percorso conoscitivo - ascetico, acquisito in termini non meramente intellettuali. La verità raggiunta non gli bastava, bisognava realizzarla, addirittura farla vivere a chi fosse in grado di sostenerla, di farsene carico, da qui l’origine dei suoi scritti e della legislazione della città di Elea, che gli studiosi gli attribuiscono. In Empedocle, invece, l’atteggiamento dionisiaco tende, fin dall’inizio, a farsi politico. Visse direttamente il pathos della distanza, con il quale poneva un abisso tra sé e i suoi  simili; infatti, la costatazione della propria divinità è un presupposto di partenza da cui egli muove per conseguire l’obiettivo democratico, aggettivo da intendersi in senso antico: nel senso della creazione di una polis di purificazione in cui gli uomini potessero ridurre al minimo la presenza di Odio, una delle due forze pervadenti il cosmo, in grazia dell’Amore comunitario. Il suo suicidio è spiegabile come imposto da un prepotente riemergere, nella sua psyché, dell’impulso dionisiaco a una vita infinita e divenne, in questa prospettiva, modello di un’esistenza più alta e nobile. Quella, del resto, a cui Socrate era spinto dal proprio demone, affinché conducesse l’umano a uno stadio idealizzato e di massima tensione erotica, all’interno dell’agone civico – politico, ma che al contempo, negli ultimi giorni di vita, come ci ricorda Platone nel Fedone, gli farà comporre delle poesie. In questo senso, per Colli, risulta esemplare l’esperienza di Platone: questi giunse alla conoscenza mosso dall’impulso dionisiaco, che si manifestò come idea della coscienza nella propria assoluta indipendenza, tale da fare percepire al filosofo, secondo la stessa ottica, le essenze ideali di tutte le altre cose, cioè gli enti come realtà perfettamente indipendenti. Egli non fece che trasformare il sapere misterico e collettivo, in un sapere superiore e individuale. Il suo superamento dionisiaco dell’umano è molto lontano dall’atteggiamento cristiano. Infatti, non si tratta di un mortificazione della carne e della dimensione mondana, ma di un impulso etico - conoscitivo che percepisce l’insufficienza, non il male, del terreno, tendendo a una vita superiore, qui e ora. Nel Fedro, attraverso la scoperta dell’eros, viene recuperata la dimensione dell’incontro con l’altro e, con essa,   la via alla politicità. La polis del  Fedro è quella degli dei, Platone, solo in una comunità simile, di perfetti e persuasi, poteva adattarsi a vivere, almeno in questa fase della sua esistenza. Nelle sue parole, però, riaffiora la speranza che presto troverà, nella vocazione politico - educativa, pienamente manifestatasi nella Politeia, il proprio luogo d’elezione e che, nel Simposio, darà luogo all’elaborazione di una scala di perfezioni che concedeva di ascendere processualmente, dal terreno al divino. Colli traccia, pertanto, alla luce del dionisismo, un originale sviluppo della filosofia greca. Crediamo che, chiunque voglia oggi elaborare una filosofia della tradizione, e soprattutto voglia tradurla in esperienza, debba necessariamente confrontarsi con le sue tesi, oltre ogni schema precostituito e oltre ogni pregiudizio. Infatti, quella proposta dal filosofo italiano, è un tradizione intesa dinamicamente, che fa della Grecia, in particolar modo della sofia presocratica, il centro irradiante tradizionale dell’intero Occidente. Ciò consente di porre in relazione il suo pensiero, certamente e senza alcun dubbio, con quello di Heidegger, ma anche con quello di un tradizionalista anomalo come Evola che, nel suo periodo filosofico, si espresse positivamente, a proposito di dionisismo. Al riguardo, rinviamo alle tesi sostenute dal pensatore romano in: L’individuo e il divenire del mondo,  testo questo, troppo poco considerato dagli esegeti dell’opera evoliana. Conclusivamente, consigliamo la lettura di questo ottimo libro di Colli, tanto agli studiosi e agli specialisti di antichistica, quanto ai neofiti: infatti, la chiarezza, il nitore con cui vengono presentate le tesi precedentemente esposte, ci rendono edotti, non solo della padronanza dell’argomento trattato da parte dell’autore, ma anche del livello assai profondo di introiezione esistenziale che la sapienza greca ha conseguito in questa originale personalità di studioso. Grazie a ciò, egli ha saputo trasmettere, in toni lievi, partecipati ed eleganti ai suoi lettori un patrimonio culturale inestimabile.

Giovanni Sessa